Rosa La Guzza

Nello Stagnitti

Nello Stagnitti:

un’alternativa melodrammatica al verismo

 

 

 

A tutti i miei cari che non ci sono più:

ai miei zii Attilio e Caterina,

ai miei nonni,

alla maestra Anna Li Mura,

a Marianna Barone.

 

 

 

A mia nonna Rosa,

mio splendido modello,

che spero di avere accanto

ancora per tantissimo tempo.

 

 

 

INDICE

 

INTRODUZIONE                                                                                            p.       5

 

CAPITOLO I

Lo scrittore e il suo paese: Nello Stagnitti e Linguaglossa                                      p.       6

 

CAPITOLO II                                                                                                   p.     12

II. 1  I temi e la poetica                                                                                        p.     12

II. 2 Temi e personaggi                                                                                        p.     15

II. 3 Patriottismo e Risorgimento                                                                          p.     16

II. 4 Il Suicidio                                                                                                     p.     21

II. 5 Il Matrimonio, l’Amore e la Donna                                                                p.     23

 

CAPITOLO III                                                                                                 p.     26

La Lingua                                                                                                             p.     26

 

CAPITOLO IV                                                                                                  p.     37

Le Opere                                                                                                            p.     37

Amata                                                                                                                 p.     42

Elda Vestini                                                                                                         p.     51

Floriana                                                                                                               p.     63

Le Fidanzate                                                                                                        p.     65

La Vita è divina                                                                                                   p.     72

Elevazione                                                                                                           p.     77

 

CONCLUSIONI                                                                                               p.     80

 

APPENDICE                                                                                                     p.     83

 

BIBLIOGRAFIA                                                                                              p.     88

 

 

INTRODUZIONE

 

Occuparsi di storia locale o, ancor meglio, di storia della letteratura locale significa entrare in contatto con  qualcuno che, nato anche molto tempo prima di noi , ha vissuto le nostre analoghe passioni, ha meditato sulle medesime questioni ma, diversamente dall’uomo comune, ha deciso di lasciare memoria di se ai posteri attraverso la scrittura.

Sarebbe davvero un grave peccato dimenticare quanti, seppur in maniera mediocre, hanno avuto il coraggio di affidare la propria parola al giudizio incontrovertibile del tempo.

Stagnitti è uno di questi personaggi, ingiustamente dimenticato e mai approfondito, e desidero farlo rivivere nel cuore e nella mente di quanti, seppur per semplice curiosità, vorranno sapere qualcosa in più su quest’uomo triste e meditabondo.

Fu probabilmente un uomo interiormente tormentato: lo dimostrano le lunghe riflessioni sui più svariati temi della vita, della morte, della patria, della donna e dell’amore.

Vigile sentinella di una realtà letteraria di fine ottocento in forte fermento, Stagnitti seppe conservare quella giusta dose di scetticismo che caratterizza ogni siciliano, non accodandosi ma neanche estraniandosi a quanto stava accadendo nel campo letterario-filosofico anche non molto lontano da lui.

Questo autore rappresenta la lucida alternativa a quei generi letterari che si propongono l’analisi del reale ma che corrono il rischio di  falsarlo.

Solo nella maturità Stagnitti giungerà a concludere che l’arte non può essere né bella né vera perché le due cose si scluderebbero a vicenda. Non esiste altra alternativa, quindi:  La vita è divina, e pure la è spesso costretta a dibattersi, e qualche volta disperatamente, tra la menzogna e la viltà! [1]

 

CAPITOLO I

                                                      

Lo scrittore e il suo paese:

Nello Stagnitti e Linguaglossa

 

 

Lacunose, poche, superficiali e difficilmente reperibili le notizie su Nello Stagnitti. Il contributo più utile è sicuramente quello del suo illustre concittadino e uomo di lettere Santo Calì, che prima in Le strade aspettano un nome [2] , suo prestigioso programma per la toponomastica di Linguaglossa, poi ne Il mio paese [3] , breve storia di Linguaglossa ad uso degli alunni delle scuole, richiesta al Professore nel 1958 dall’amministrazione Boemi e, infine  in Bibliografia di autori linguaglossesi [4] ,  fornisce le informazioni essenziali sullo Stagnitti e sulla sua opera.

Quanto riferito allo Stagnitti è ripreso anche dal libro Il nome della strade del professore Girolamo Barletta, edito dalla Tipo-litografia Bracchi, a Giarre, nel 1988.

Nello (Mariano) Stagnitti nasce a Linguaglossa, nel quartiere di S. Egidio, alle cinque del mattino del 2 Luglio 1856, dal notaio Francesco, militante nella carboneria, e dalla sua terza moglie, Concetta Castrogiovanni. Il notaio ebbe cinque figli da una prima moglie, due dalla seconda, Rosa Castrogiovanni (sorella di Concetta), e solo uno, Nello, dall’ultima moglie.

Più distanti rimasero i rapporti fra Nello e i fratellastri nati dal primo matrimonio del padre, fra i quali è significativo menzionare uno dei figli della discendenza femminile: Antonino Ferraù.

Ferraù è un ormai anziano funzionario del comune di Roma, il quale pubblicò negli anni 50 e 60 del ‘900 parecchi scritti poetici di livello non trascurabile, alcuni dei quali su Linguaglossa, firmandosi con lo pseudonimo quasi anagrammato di Renato Fauroni.

Molto intimi furono invece i rapporti con il fratello Antonino, nato dal secondo matrimonio del padre, più grande di Nello solo di pochissimi anni, e con i suoi figli: Manlio, Francesco e Rosina.

Antonino, detto Nai Caracozzo (dal cognome di un’antenata), fu sindaco di Linguaglossa per un mandato, durante il quale si ottenne la fornitura di energia elettrica per il centro abitato.

È  difficile stabilire il grado di istruzione che lo Stagnitti acquisì, ancora meno  risulta la conoscenza delle scuole da lui frequentate, anche se il Calì riferisce con sicurezza della sua presenza alle elementari del paese. [5] Secondo l’uso delle famiglie più agiate dell’epoca, le figlie femmine rimanevano a frequentare le scuole elementari a Linguaglossa presso le suore, mentre i maschi venivano mandati a studiare nei collegi, spesso gestiti da ecclesiastici, dei comuni limitrofi quali Randazzo, Giarre o Acireale. Probabilmente, lo scrittore frequentò uno di questi collegi conseguendo la licenza media, titolo inaccessibile a Linguaglossa fino al secondo dopoguerra.

Non è chiaro perché, pur appartenendo ad una famiglia agiata che incoraggiava la formazione scolastica dei figli, Stagnitti  non conseguì mai un titolo di studio accademico, al quale poteva potenzialmente aspirare.

I discendenti asseriscono che lo Stagnitti non conseguì alcuna laurea e probabilmente neppure un diploma di scuola media superiore.

La formazione dello Stagnitti risale al periodo successivo all’unità d’Italia, uno dei momenti più tragici per il Meridione, la cui economia fiorente, all’indomani della spedizione dei Mille, si avvia, a causa dell’unificazione monetaria della penisola ed all’eliminazione improvvisa di secolari protezioni doganali, ad un rapido declino. Dopo l’unificazione infatti, la struttura produttiva dell’ex regno delle Due Sicilie, sia a causa dell’ingresso di merci a prezzi fortemente competitive prodotte dal settentrione, sia in ragione della conseguente fuga di capitali e di risorse umane, crolla nell’arco di circa un trentennio.

 Usava passare molte ore nella biblioteca di famiglia dove, da autodidatta, affinò la sua conoscenza dei classici greci e latini e dove, probabilmente, entrò in contatto con i contemporanei movimenti letterari che intanto interessavano soprattutto Italia e Francia.

Di questa biblioteca, tranne il ricordo affidato alla viva voce dei pochi discendenti, non rimane più nulla. Sappiamo che era di dimensioni modeste, con tomi rilegati in carta pecora e che per volontà dell’ormai anziano Manlio (figlio di Antonino, avvocato, il quale a Linguaglossa esercitò la carica onorifica di Pretore) trascorsero parecchi anni accatastati sul pavimento umido del polveroso magazzino di famiglia. L’avvocato Manlio, orgoglioso, seppur superficialmente conoscitore dell’opera dello zio, preferì, probabilmente per l’età avanzata, utilizzare gli scaffali in cui erano impilati i libri come fruttiera di casa. I testi, durante i lavori di svuotamento del magazzino, avvenuti negli ultimi decenni del ‘900 furono  trovati in condizioni di tale deterioramento da ritenere inevitabile la loro eliminazione.

Dopo la morte del padre, ancora piccolo, Nello si spostò insieme alla madre in una casa non molto distante da quella paterna, sempre nello storico quartiere di S. Egidio a Linguaglossa.

Linguaglossa, ‘figlia della foresta [6] , è un piccolo centro del versante nord dell’Etna. La laboriosità degli abitanti e la salubrità del contesto ne hanno fatto uno dei centri a più alta densità intellettuale della Sicilia orientale.

Nata probabilmente in età normanna, fu sede privilegiata per l’estrazione della resina e lo sfruttamento del legname proveniente dalla foresta del Ragabo.

L’Etna è croce e delizia dei linguaglossesi che, se da un canto le devono la vita, dall’altro vivono in simbiosi con la vicinanza del vulcano impone.

Secondo la tradizione popolare, Linguaglossa è stata costruita su una lingua di lava, Lingua, dalla quale forse, deriverebbe anche il toponimo. Leggende parallele identificano la collocazione di questo antico borgo con la presenza di uno sboccato fondacaio:

Un uomo ne bello, ne brutto; nè grasso, né magro; un solo vizio aveva: di tutti diceva male, contro tutti imprecava, ingiuriava i clienti la moglie, aveva insomma una lingua grossa così! Per questo lo chiamavano Mastro Lingua Grossa . [7]

In ogni caso, come puntualizza meglio Calì : La parola linguaglossa è considerata oggi un bell’esempio di toponoma tautologico. Toponoma tautologico significa nome locale che ripete la stessa nozione in parlate diverse: Linguaglossa sarebbe composto da Lingua, parola latina, e Glossa, parola greca, che ha anch’essa il significato di lingua.

 E invece Linguaglossa è chiamata così solo dalla seconda metà del settecento; prima si chiamava semplicemente Lingua Grossa. [8]

Patrono del paesino pedemontano è S. Egidio Abate, il cui culto introdotto in Sicilia dagli Angioini, appartiene alla tradizione linguaglossese in seguito ad una violentissima eruzione dell’Etna del XVI sec.: gli abitanti cominciarono a fuggire spaventati, e fu allora che, secondo la leggenda, sant’Egidio apparve in abiti talari ad una vecchietta, invitandola a suonare le campane della sua chiesa per richiamare i paesani. Linguaglossa sfuggì il pericolo, e da allora, ogni qual volta la lava del Vulcano buono minaccia il paese, i Linguaglossesi si affrettano a condurre il miracoloso bastone del santo greco alle porte del centro abitato, le cui soglie  la lava intimidita non ha varcato mai più. [9]

All’esterno della chiesa dedicata a S. Egidio, si osserva, tra l’altro proprio sui muri di perimetro, un enigmatico portale, del quale non si è ancora stabilita né la  provenienza né tanto meno la datazione. Il portale contiene scolpita sull’architrave una figura femminile, forse una sirena, che stringe nelle mani due serpenti: al di sopra di essa sono scolpiti quattro caratteri grafici, anche questi non ancora decifrati. La figura, di provenienza certamente pagana, risultando inconciliabile come parte integrante di un edificio cristiano, essendo tuttavia sita proprio in quella zona del paese, può indurci a pensare che fosse questo l’antichissimo stemma, e proprio il quartiere di S. Egidio l’ubicazione esatta di coloro che per primi si insediarono nel territorio di Linguaglossa.

Se il nostro scrittore si sia interessato a questi problemi non ci è dato sapere, ma certamente nei pressi del presunto antico stemma egli trascorse la maggior parte dei suoi giorni. Tuttavia nessuna delle sue opere è ambientata a Linguaglossa, nè lo sono le caratterizzazioni sociali o naturali.

Anche la nuova casa di via Libertà nella quale si spostò con la madre non distava più di cinquanta metri dalla chiesa del patrono di Linguaglossa, festeggiato il primo di Settembre.

Una via di Linguaglossa gli è stata intitolata, negli anni ’90, dall’amministrazione Rosta, su precedente proposta di Santo Calì ne Le strade aspettano un nome [10] . La strada in questione è l’ex Via III Oberdan che, paradossalmente non ha nulla a che vedere con i luoghi natali dello scrittore.

Alla madre Nello Stagnitti dedicò le sue  amorevoli cure, non allontanandosene neanche quando nella sua vita entrò un’altra donna. Stagnitti invitò la donna in casa sua solo dopo la morte della sua amata mamma evidentemente per risparmiarle quello che per l’epoca, rappresentava un evento traumatico.

Chi fosse e da dove venisse questa signora non è più possibile sapere, ma tre cose sono certe: che era sposata con figli, che non era di Linguaglossa, e che di lei lo scrittore si innamorò teneramente.

Potrebbero essere proprio le caratteristiche di questa donna sconosciuta a delineare le figure di donne-amanti così costanti nei suoi romanzi. Peraltro, sempre in base alla caratterizzazione delle figure femminili delle sue opere, non è difficile pensare che la donna in questione fosse una ballerina o una personalità dello spettacolo, anche  per il fatto che Stagnitti coltivava la passione per la musica e per l’opera.

Ovviamente, l’arrivo di questa donna creò un innegabile scandalo nell’ambiente popolare di Linguaglossa, per altro molto interessato a questo genere di novità, tanto che, al fine di evitare ulteriori problemi, neppure i parenti stretti potevano andare a trovare la coppia, con l’eccezione dei fratelli e dei nipoti maschi.

Lo Stagnitti, comunque, continuò a frequentare la casa paterna, contribuendo attivamente alla amministrazione del cospicuo patrimonio familiare.

Intanto, insieme ai fratelli, continuò l’esercizio del suo hobby principale, la caccia.

La malinconia e la tristezza, note costanti delle opere dello scrittore, non sono estranee agli eventi che ne plasmarono il carattere e il profilo psicologico.

Dopo la morte del padre, rimasto orfano anche della madre, quest’ uomo sfortunato perse anche la donna che aveva scelto come compagna di vita e che per tanto tempo aveva nascosto e desiderato e tuttavia, non aveva potuto amare pubblicamente.

Dopo questo ulteriore evento traumatizzante, lo scrittore piombò in una tetra malinconia, trincerandosi in casa senza più scrivere ma continuando ad esercitare il suo amore per la lettura e la filosofia. È come se i finali tragici dei suoi romanzi fossero la triste anticipazione della sua  vita.

Morta la compagna, Nello venne assistito nelle incombenze quotidiane dalla cognata, moglie di Nai, la quale, ogni giorno amorevolmente , gli preparava il pranzo e, per quanto il fratello lo invitasse a consumarlo insieme, egli preferì sempre che gli fosse mandato a casa, dove mangiava da solo. Nello attendeva riconoscente la donna di servizio con l’involto contenente il suo pranzo ma, vezzo dell’artista, guai se questo non arrivava puntuale: doveva essere mezzogiorno in punto.

Si parla pure di un simpatico soprannome dello Stagnitti, che un po’ tutti in famiglia gli affibbiarono per sottolineare l’evidentemente singolare modo di muoversi: ‘coddu di vitru’ (collo di vetro).

Confortato dalla famiglia del fratello, Nello Stagnitti si spense a Linguaglossa, ancora sessantaquattrenne, il 5 Gennaio 1920. Della sua tomba, visibile nell’ala del cimitero monumentale di Linguaglossa fino a qualche decennio fa, oggi si sono perse le tracce, nè alcuna informazione è rimasta nei registri del cimitero, probabilmente compilati in maniera lacunosa in anni tanto difficili per l’Italia.

Nello Stagnitti sembra aver attraversato veloce e silenzioso quel lasso di tempo fra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 ricchissimo di fermenti letterari e che tanto avrebbe influenzato anche storicamente il futuro dell’Italia.

 

CAPITOLO II

II.1 I temi e la poetica

Stagnitti è scrittore di provincia, ma mai provinciale, come mai lo sono gli scrittori siciliani che respirano pur dall’isola l’aria della cultura europea: sono scrittori coltissimi che conoscono e maneggiano i testi della letteratura inglese ma soprattutto francese. Sarà così per Bufalino, Sciascia, Brancati, per il principe di Lampedusa.

Quasi contemporaneo dei grandi letterati siciliani del secondo ottocento, appartiene solo periodicamente alla corrente veristica: Capuana nasce infatti nel 1839, Verga nel 1840, De Roberto  nel 1861, Stagnitti nel 1856.

 Stagnitti è autore di sei opere:

 

·             due commedie 

Ø         Amata, commedia in tre atti, pubblicata a  Milano dalla  Libreria editrice, nel 1885

Ø         Elda Vestini, commedia in cinque atti, pubblicata a Catania dalla Tip. Martinez nel 1887

·             una raccolta di novelle

Ø         Floriana una raccolta di  Novelle, edita a  Catania per conto della  Tip. Tropea, prima del 1897

·             due romanzi

Ø         Le fidanzate, pubblicata ancora a  Catania da  Giannotta Ed. nel 1897

Ø         La vita è divina, stampata a Milano da Remo Sandron nel 1907

·             un’opera filosofica

Ø         Elevazione, pubblicata a Città di Castello dalla Casa Editrice Lapi nel 1914

 

Sono gli stessi anni in cui De Roberto  scrive Documenti Umani (1888), Processi verbali (1890) e I Vicerè (1890);  Capuana si cimenta con le varie raccolte: Homo! (1883), Le appassionate (1893), Le paesane (1894) e intanto lavora al Marchese di Roccaverdina che sarà pubblicato solo nel 1901; infine, è il tempo dell’opera ‘matura’ di Giovanni Verga che dagli anni ottanta sino al 1906-1907 si dedica al Ciclo dei Vinti: I Malavoglia (pubblicato per la prima volta da Treves nel 1881), le Novelle Rusticane (1883), Mastro Don Gesualdo (tra il 1888 e il 1889).

 

La bibliografia delle opere dello Stagnitti, così ripartita è da attribuire a Santo Calì, anche se nella IV pagina di copertina di Elevazione, l’ultima opera, è presente la bibliografia completa dell’autore:

 

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Lo Stagnitti esordisce quasi trentenne nel campo della letteratura col genere teatrale per poi accostarsi solo in un secondo momento alla narrativa e quindi ad una riflessione più matura, prettamente filosofica, che raggiunge il suo apice in Elevazione.

Le opere si susseguono talvolta cronologicamente molto vicine, come nel caso del teatro o del prolifico anno 1897, ( sono di quest’anno sia la raccolta di novelle ‘Floriana’ che il romanzo ‘Le Fidanzate’) talvolta con stacchi temporali anche di dieci anni. Il 1897 è anche la data del brusco passaggio dal genere teatrale alla narrativa. Lo Stagnitti, infatti abbandonerà definitivamente il teatro da questo momento in poi.

Probabilmente aveva una grande predilezione per il genere filosofico: lo testimoniano le innumerevoli e talvolta interminabili divagazioni che sono parte fondamentale delle sue opere. Inoltre i discendenti riferiscono della sua grande passione nel discutere di filosofia anche in famiglia. Tuttavia non sempre i familiari erano ben disposti nei confronti di tali discussioni, cosa che doveva procurargli non poca frustrazione: “tanto lo zio Nello parla solo di filosofia” era la frase che avrà sentito chissà quante volte. Tali riflessioni riguardano soprattutto la natura dell’amore, i rapporti tra uomini e donne nonché più generali analisi sulla vita e sulle sue fasi.

 

Le due opere teatrali, probabilmente, non furono mai rappresentate. Non esiste memoria né testimonianza alcuna che possa provarne la messa in scena.

I romanzi si aprono con delle esaustive presentazioni, mentre Elevazione è introdotta da cinque pagine intitolate PRIMA CHE SI VADA AVANTI. L’attenzione particolare alla prefazione del libro come luogo privilegiato del dialogo autore-lettore è già stata ampiamente anticipata da Verga. L’autore verista si limita a darci un quadro delle proprie scelte narrative all’inizio dell’opera per non presentarsi più, nel tentativo di rendere la narrazione impersonale.

Tuttavia lo stesso Verga ci ha lasciato notevoli spunti utili a descrivere le direzioni della ricerca letteraria da lui intrapresa e assai coerentemente portata a compimento, con notevole lucidità consequenziale. Bisognerà andare a cercare le tracce di tale ricerca anzitutto tra le prefazioni e i prologhi anteposti a molti testi: sono infatti questi i luoghi privilegiati ed istituzionali adibiti sia alle dichiarazioni di intenti, sia al colloquio scrittore-lettore. [11]

I romanzi sono brevi, non superano mai le centosessanta pagine. Sono suddivisi in capitoli numerati con numeri arabi. Oltre all’incalzare degli avvenimenti che si susseguono molto simili fra le varie opere, la narrazione è punteggiata da descrizioni che riguardano soprattutto l’abbigliamento.

Il tempo del racconto è  molto contratto nelle opere teatrali, si espande invece nei romanzi.

Innegabili sono i parallelismi con Verga, soprattutto il primo Verga e, in particolare, quello dei romanzi catanesi. Del resto Stagnitti dovette certamente entrare in contatto col Verga, di sedici anni più grande, o almeno con le sue opere. Proprio nell’anno di nascita dello Stagnitti, il 1856, vede la luce ‘Amore e Patria’, il primo romanzo verghiano.

Il primo Verga come lo Stagnitti è attratto dai grandi temi romantici della patria e dell’amore, forte impressione hanno provocato in lui gli insegnamenti di Antonio Abate e i romanzi patriottici di Domenico Castorina. Ad un certo punto, però, le scelte dei due letterati acquistano prospettive diverse : Verga si allontana dallo stile enfatico dei suoi primi anni, si discosta anche da qualsiasi partecipazione emotiva al mondo esterno; Stagnitti, quasi anticipando la grande stagione letteraria successiva dell’estetismo, rifiuta quel vero che non sia anche bello.

Un forte pessimismo, forse innato, copre quasi come una coltre di fuliggine, tutta l’opera di Stagnitti. Si alternano storie di tradimenti ad altre di amori impossibili culminati nel suicidio. 

Fra necessità del vero e necessità del bello, Stagnitti continuerà a dibattersi per tutta la sua carriera letteraria nella ricerca di una sintesi che sembra sempre allontanarsi quanto più ci si avvicina.

 

II.2 Temi e personaggi

Le tematiche sviluppate dallo Stagnitti nell’ambito dei romanzi e delle opere teatrali si ripetono in maniera molto simile. Sembra quasi che l’autore si sia proposto di scrivere una storia il cui definitivo compimento è sempre più travagliato. Infinite sfumature, variegati personaggi e possibili soluzioni sbarrano la strada al compiersi della vicenda narrata.

I temi che si ripetono e che l’autore affronta costantemente sono: l’amore;  il patriottismo;  il suicidio;  il tradimento; il matrimonio e la donna.

 

II. 3 Patriottismo e Risorgimento

                             Risorgimento è lo sforzo di unità morale e politica

       compiuto da un popolo che ebbe coscienza del suo decadimento,

lo confessò in un proposito di volontà di rialzarsi, e cercò

e ritrovò se stesso nel suo passato, creò il suo mito, ne trasse

l’energia di idee – forze morali, si giovò delle circostanze e

degli uomini, inserì se stesso nel movimento generale dell’Europa,

e ricompose in unità politica la nazione. [12]

 

È il tema d’esordio dello Stagnitti autore di teatro, nucleo tematico della prima commedia, Amata. Quella di Stagnitti,  seppur  ricca di tanti altri spunti tematici, rientra a pieno titolo nel filone della Letteratura Risorgimentale, alla quale fu il romanticismo a fornire i contenuti base: il concetto di patria, intesa non solo come realtà geografica, ma soprattutto come unità d’intenti di individui accomunati dallo stesso patrimonio spirituale. Santo Calì, ribadisce che il lamentato scarso interesse della critica per la letteratura garibaldina, […]è anche da mettersi in rapporto proprio con la scarsa informazione sull’esistenza di un materiale vastissimo che costituisce, di per se stesso, uno dei momenti più importanti della storia del nostro Risorgimento; quel materiale andrebbe studiato a fondo: non si dimentichi infatti che il fenomeno della letteratura garibaldina ci mette dinanzi ad un interessantissimo processo di contaminazione tra letteratura e vita, tra letteratura e azione, nel costituirsi di un ricco e vario scambio di rapporti tra pagina scritta e atteggiamenti di carattere morale, politico, sociale. [13]

L’Amata di Stagnitti rientra a pieno titolo nelle suddette tematiche e non è strano che un siciliano di provincia esordisca nel campo della letteratura con un’opera di ispirazione risorgimentale. Il Risorgimento infatti è particolarmente sentito in Sicilia, e ancor di più lo è in quella parte della Sicilia orientale legata ad episodi di dura repressione da parte del nascente governo italiano.

Precisa Rodolico in occasione del centesimo anniversario del risorgimento italiano:

Quale il valore storico della rivoluzione siciliana rispetto al Risorgimento italiano?

A parte quello che deriva dalla priorità cronologica essendo stata la prima della rivoluzioni dell’Europa del ’48; a parte quel suo carattere cavalleresco, per cui, come al tempo dei cavalieri antichi, i Siciliani sfidarono il governo borbonico, preannunziando il giorno della rivoluzione, a parte tutto questo, la rivoluzione siciliana ha un suo particolare valore storico.

La vigilia del ’48 è tutta una euforia di speranze e di illusioni – hanno anch’esse una realtà -; la fortuna, sempre crescente, dell’idea neoguelfa è dovuta al fascino di illusioni di una pacifica soluzione di due ardui problemi: quello della libertà e quello dell’indipendenza.

[…]

E vi è dell’altro ancora nell’apporto della rivoluzione siciliana al Risorgimento italiano: occorrevano buoni e numerosi artefici all’opera grandiosa: la rivoluzione siciliana fu la grande fucina, in cui a forgiare il buon metallo si preparavano quelli che furono poi tra gli artefici più operosi dell’unità italiana.

Dalla Sicilia del ’49 – restaurato il borbone – partivano numerosi patrioti siciliani. Genova, Torino, Firenze erano principalmente le città che li accoglievano. La Sicilia iniziava allora, per l’Italia, quella corrente, sempre più ricca di energie, che dal Sud al Nord portava ingegno, sangue, braccia di suoi figli. [14]

Stagnitti apprese delle gesta dei patrioti siciliani che lo precedettero solo di pochi anni, oltre che dai racconti di chi vi prese parte, anche dalla letteratura e dalla storia. Proprio all’anno della nascita di Stagnitti, il 1856, risale una delle tante insurrezioni dei siciliani, su iniziativa del Barone Francesco Bentivegna, il 22 Novembre 1856 Bentivegna decise di avviare in anticipo la congiura programmata per il gennaio successivo che malauguratamente era stata scoperta. Il primo atto consistette nella liberazione dei carcerati di Mezzoiuso grazie ai quali il Barone rinfoltì le sue schiere. Ma in seguito all’intervento dei soldati borbonici e alla non avvenuta adesione al movimento da parte dei palermitani, Bentivegna sciolse la sua banda solo due giorni dopo, il 24 novembre. Ma non era ancora finita: da Cefalù i cospiratori aprirono un nuovo capitolo rivoluzionario liberando dal carcere il giovane patriota Salvatore Spinuzza, ma era troppo tardi e le repressioni erano già in fase troppo avanzata. Sia Bentivegna che Spinuzza vennero fucilati, ma i tentati insurrezionali in Sicilia non si spensero. Nella primavera del 1860, si accese in Sicilia una rivolta separatista che, sebbene  sanguinosamente stroncata a Palermo, continuò nelle campagne.

Adesso tutte le speranze dei patrioti siciliani erano rivolte a Garibaldi, il mito più prestigioso del nostro risorgimento.

Vene! Vene!: queste parole,  a bassa voce, con il cuore in bocca, mille e mille siciliani ripetevano dall’aprile al maggio nell’attesa di Garibaldi. Era espressione più che di speranza, di creduta certezza, anche quando nulla di sicuro si sapeva.

Stato d’animo questo, che non era nuvola d’illusioni, ma era alimentato da fatti rivoluzionari scoppiati nelle città e nelle campagne. [15]

Ancora protagonista la Sicilia , dalla quale Garibaldi decise di intraprendere il cammino di liberazione che avrebbe reso l’Italia definitivamente unita.

L’esperienza garibaldina in Sicilia rimane tuttavia intrisa di contraddizioni: libertà, unità , uguaglianza, stato, sono pure astrazioni per il Popolo siciliano dell’800, schiacciato dal duro lavoro, oppresso dalle richieste dei signorotti nullafacenti. La liberazione alla quale aspira il popolo di Sicilia coincide con il peso di decine di conquistatori pronti a prendere più che ad offrire e Garibaldi in un primo momento riuscì forse a cogliere il senso delle richieste dei siciliani e promise, dopo aver assunto la dittatura dell’Isola in nome del re, di abolire l’odiosa tassa sul macinato, i canoni per le terre demaniali,  di voler procedere ad una riforma del latifondo. Saranno proprio queste promesse ad attirare le masse contadine dei “picciotti” che furono determinanti nel primo scontro a Calatafimi con l’esercito di Francesco II. Ma da quel momento in poi inizia l’altra guerra dei contadini che invadono i feudi dei latifondisti, i demani comunali, bruciano gli archivi dove sono custoditi i titoli del loro servaggio. Ma i movimenti insurrezionali dei contadini contro i baroni furono spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia Nazionale anticontadina; è tipica la spedizione repressiva di Nino Bixio, il braccio destro del Generale nella regione del catanese dove le insurrezioni furono più violente [16] .

A Bronte si concretizzò violentemente il grande scontro fra i contadini siciliani e uno stato italiano non ancora nato. Le violenze perpetrate dai contadini esprimevano l’atavica fame di terra e l’altrettanto secolare odio per i proprietari sfruttatori. Era questo quello da cui i contadini siciliani volevano liberarsi. Dei temi politici, delle elucubrazioni patriottiche, non avevano il tempo per occuparsene.

Significativo in tal senso il dialogo fra Frate Carmelo e Abba, il cronista-poeta della spedizione dei Mille:

-     Venite con noi vi vorranno tutti bene.

-     Non posso

-     Forse perché siete frate? Ce n’abbiamo già uno. Eppoi altri monaci hano combattuto in nostra compagnia, senza paura del sangue.

-     Verrei, se sapessi che farete qualcosa di grande davvero: ma ho parlato con molti dei vostri , e non mi hanno saputo dire altro che volete unire l’Italia.

-     Certo; per farne un grande e solo popolo.

-     Un solo territorio!...In quanto al popolo, solo o diviso, se soffre, soffre; ed io non so che vogliate farlo felice.

-     Felice! Il popolo avrà libertà e scuole.

-     E nient’altro! – interruppe il frate: - perché la libertà non è pane e la scuola nemmeno. Queste cose basteranno forse per voi Piemontesi: per noi qui no.

-     Dunque che ci vorrebbe per voi?

-     Una guerra non contro i Borboni, me degli oppressi contro gli oppressori grandi e piccoli, che non sono soltanto a corte, ma in ogni città, in ogni villa.    […] [17] .

Neanche la spedizione dei mille riuscì a trasformare il Risorgimento da un movimento d’elite ad un movimento popolare.

Stagnitti esemplifica la sua opera una delle istanze più significative del risorgimento italiano: il popolo fu il grande assente. I personaggi di Stagnitti, forse perché proiezioni inconsciamente autobiografiche [18] , sono sempre appartenenti ai ceti alti o medio alti della società: sono medici, commendatori, colonnelli, avvocati; Stagnitti non eroizza, non enfatizza.

Anche nel suo personale giovanile omaggio al risorgimento il popolo non interviene. Lo scontro Stato-contadini si concretizzerà nel fenomeno del cosiddetto ‘Brigantaggio meridionale’ che “…può considerarsi pressoché l’unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento” [19] .

Con i picciotti, squadre di contadini capeggiate da nobili, la Sicilia offre uno dei pochi esempi di partecipazione popolare alla rivoluzione:

Senza le squadre dei picciotti il miracolo dei mille non sarebbe avvenuto [20]

Il Risorgimento fu soprattutto opera di nobiltà e di borghesia, anche se necessaria,  integrativa fu l’azione del popolo. Non certo l’ideale di libertà e di unità mosse la popolazione rurale ed il popolo minuto urbano – e ciò si può dire anche per altre regioni – a farlo ribellare; più di tutto valse la giustizia offesa; il popolo è assetato di giustizia, anche se commette ingiustizie. Un atto, un gesto di prepotenza valgono a provocare la reazione del popolo siciliano, anche se esso è stato oppresso ed umiliato. Fra la popolazione rurale siciliana – nota lo storico dei mille, il Macaulay – Trevelyan - non vi era come nel continente un partito reazionario, e una sola era la loro consueta espressione augurale: «Quando ci libereremo da questo giogo infame?». [21]

 

II. 4  Il suicidio

La tematica del suicidio derivante da delusione sentimentale è presente nelle letterature di tutte le latitudini e di tutti i tempi, ma non è mai così caratterizzante come per la letteratura dell’800, un secolo in cui sembra non esserci posto se non per le estremizzazioni dei sentimenti e delle passioni. Così la patria, l’amore, l’onore, il denaro, sono i valori assoluti per i quali bisogna essere disposti anche a morire. Già ne I Dolori del giovane Werther di Goethe un giovane uomo sceglie di suicidarsi quando apprende che il suo amore è ricambiato ma non potrà mai essere vissuto. Alla delusione d’amore nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo si aggiunge quella politica legata alla cessione del veneto agli austriaci da parte di Napoleone.

Leopardi insieme a Schopenhauer considera il suicidio un’azione inutile e stolta ma lo definisce assolutamente giustificabile in quanto legato alla perdita delle illusioni, in contrasto col cristianesimo e con l’etica comune. Leopardi delega il proprio pensiero ai suoi personaggi: Bruto Minore e Saffo ne i Canti e i filosofi dell’antichità Plotino e Porfirio ne le Operette Morali. Bruto e Saffo sono proiezioni delle delusioni leopardiane.  La Natura ha fatto nutrire a Bruto illusioni e ideali alti e irrealizzabili e a Saffo ha dato, con perfida malizia, un corpo sgraziato che accoglieva un animo sensibile. Mentre Bruto Minore narra un suicidio civile, nell'Ultimo canto di Saffo il suicidio assume un carattere esistenziale ed individualistico. L'ottica cambia nel Dialogo di Plotino e Porfirio dove due filosofi neoplatonici parlano del suicidio: Porfirio intenzionato a uccidersi ne difende la validità con argomenti razionali tentando di convincere il collega del fatto che

Tuttavia la natura ci destinò per medicina di tutti i mali la morte [22] ;

Plotino, pur concordando con le ragioni dell'amico, tenta di dissuaderlo dall'azione.

Ne La quiete dopo la tempesta, Leopardi condanna duramente il suicidio relegandolo a un gesto di codardia dinanzi all'infelicità e alla noia.

Nell’ambito del teatro, rimanendo in Italia, secondo Pirandello, l’uomo non ha altra via d’uscita che il delitto o il suicidio, oppure fingersi pazzo ed esprimere liberamente le sue idee, o ancora accettare tutto rassegnato. [23]

Il suicidio fu anche uno dei motivi cardine dell’identità esistenziale e letteraria della Scapigliatura, non solo nei suoi tratti maledetti ed estetizzanti, ma anche come reazione e protesta contro la società. Differenti furono le concezioni e le “metodologie” del suicidio scapigliato: dal gesto estremo e feroce tramite armi da fuoco alla lenta e metodica distruzione del proprio corpo attraverso l’abuso d’alcool e droghe, fino alla ricerca morbosa della malattia e dell’auto-emarginazione, nel desiderio dell’annullamento del sé.

Provando ad analizzare le cause di un numero così alto di suicidi reali o raccontati, possiamo constatare la crisi che colse i letterati all'indomani della proclamazione ufficiale dello Stato unitario nel 1861: gli Scapigliati non riuscirono ad accettare il nuovo assetto del paese, i conflitti dovuti alla modernità e allo sconforto amaro per la nuova società post-risorgimentale.

Le vite di tutto loro furono brevissime e tristi:

 

Torva è la Musa : Per l’Italia nostra

Corre levando impetuosi gridi

Una pallida giostra

Di poeti suicidi [24]

 

Praga morì alcolizzato a soli 36 anni, Sacchetti a 34, Tarchetti non arrivò alla trentina cercando morbosamente la morte, i poeti Pinchetti, Uberti e Camerana si suicidarono.

 

II. 5 Il tradimento

Non esiste nello Stagnitti il tema del tradimento della patria, prevalente fra i sottogeneri del tradimento soprattutto nell’età del patriottismo per eccellenza, l’800. Numerosi sono i prototipi dei traditori nella letteratura: Giuda,  Gano di Maganza, responsabile del disastro di Roncisvalle, ma per tornare all’800 basta citare Il Conte di Carmagnola del Manzoni o Emma Bovary di Flaubert. Il tradimento in Stagnitti è sempre perpetrato dall’uomo e non è solo tradimento d’amore, è anche tradimento dei figli nei confronti dei genitori e fra amici. Nello specifico è proprio quello che accade in Elda: Marino dell’Elda Vestini è il prototipo del traditore. I genitori di Marino hanno riposto in lui grande fiducia ma egli tradisce le loro aspettative per ben due volte (prima dandosi alla bella vita e alle donne anziché allo studio, poi fuggendo con i soldi del padre dopo aver promesso di rettificare la propria condotta). Anche nel Cavaliere Quirino Valnieri, è stata riposta la più cieca fiducia, tuttavia egli tradisce tutti , ma sopraffatto dagli scrupoli finisce per suicidarsi.

 

II. 6 Il matrimonio, l’amore  e la donna

Le considerazioni che lo Stagnitti fa esprimere ai propri personaggi sembrano sfiorare la misoginia soprattutto nelle prime opere, ma, paradossalmente, all’iniziale insofferenza, l’atteggiamento successivo dello Stagnitti nei confronti delle donne si modificherà in positivo, tanto da far assurgere la donna a fulcro del resto della sua produzione. Indicativi in tal senso i titoli stessi delle opere: Amata, Elda e Floriana sono nomi femminili; Le Fidanzate e La vita è divina sono entrambe opere già dal titolo, declinate al femminile.

L’atteggiamento della letteratura nei confronti del decantato sentimento dell’Amore assume connotazioni differenti, conformandosi alle epoche ed ai movimenti.

Nell’Ortis Foscolo parla dell’esperienza amorosa di Jacopo per Teresa. Il sogno di una relazione si infrange sulle ineliminabili differenze di classe sociale che spingono il protagonista al suicidio, forma estrema di protesta contro una società ingiusta , che non dà spazio ai liberi sentimenti. La vicenda è esemplificativa del passaggio dal gusto neoclassico a quello romantico, dove l’intensità del sentimento prevale sul calcolo e sulle ragioni sociali.

Nel Romanticismo l’esperienza amorosa è strettamente legata alla passione, all’idealizzazione della figura femminile, alla generosità dei sentimenti, allo spirito di sacrificio e al binomio amore-morte.

In Verga, la cui posizione a riguardo è molto vicina a quella dello Stagnitti,  l’amore è tormento, esperienza difficile e mai pacificamente vissuta.

Il sentimento amoroso non ha mai uno spazio autonomo, non è mai sganciato dalle logiche economiche della casa o del lavoro. È esasperazione passionale ne ‘ La Lupa ’, è gelosia e vendetta in ‘Cavalleria Rusticana’ e in ‘Jeli il Pastore’. È legame tenace nell’’Amante di Gramigna’, calcolo, legato all’avanzata sociale di ‘Mastro don Gesualdo’ ed al salvataggio economico di casa Trao. La morte in solitudine di Gesualdo testimonia l’assenza di qualsiasi legge d’amore puro che regga il mondo verghiano. Anche l’umile e devota Diodata non rompe questa logica di esclusione . L’amore è infine ridotto ne ‘I Malavoglia’ alla variabile economica nell’impossibile matrimonio di Mena e Brasi Cipolla.

Il tema dell’Amore è quasi ossessivo per D’Annunzio, che lo fa protagonista o almeno attore immancabile di tutte le sue opere a cominciare dal ‘Piacere’.

In realtà i rapporti con i personaggi femminili sono condizionati dall’esasperata volontà di ricreare forme di bellezza e distinzione proprie del superuomo. L’amore come abbandono, trasporto, donazione di se non ha spazio in D’Annunzio. Esso è invece tensione, esasperazione, affermazione del superuomo in vicende d’eccezione che talvolta si capovolgono nel dramma e nella sconfitta. Nel ‘Trionfo della morte’ il duplice suicidio dei protagonisti Giorgio Arispa ed Ippolita Sanzio segna l’impossibilità di vivere stabilmente una passione troppo estenuante e vuota nella sua sensualità. Nel ‘Piacere’ è impossibile da rivivere la relazione tra l’esteta Andrea Sperelli ed Elena Muti, mentre nel ‘Fuoco’ si consuma, in un’atmosfera autunnale, la passione di Foscarina per l’imaginifico Stelio Effrena. [25]

Le donne descritte dallo Stagnitti hanno molto della Teresa Uzeda di Francalanza , protagonista de l’Illusione di Federico De Roberto: figlia di un potente nobile siciliano cercherà per tutta la vita l’amore, senza rassegnarsi ad una realtà di continue delusioni sentimentali. Il personaggio di Teresa è tanto monotono da sembrare come per le donne di Stagnitti una sorta di summa di «tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa sorta di passione e avventure amorose […] contenute nel romanzo a ripetere stancamente le parti da loro innumeri volte recitate» (Benedetto Croce). [26]

L’amore descritto da Stagnitti pur assumendo infinite declinazioni si mantiene sempre nei registri di una castità quasi esagerata, lungi dal lasciare emergere una grande passionalità repressa che raggiunge timidamente il suo elegante acme poetico nel VII capitolo de La Vita è divina:

Quando lo sguardo pieno di vitalità d’un uomo,             

s’incontra in quello tremoroso e pieno di desiderio

d’amore di una donna, e specie quando questa

donna sia giovane e bella, e gli sguardi di tutt’e

due rimangono affissati a lungo l’uno nell’altro

tanto, finchè le loro anime si confondano e si uni-

scano in un sol desìo; pare, che in tutto l’interio-

re venga diffusa una misteriosa e dolce saldezza,

che riscalda di colpo tutto il sangue nelle vene;

e così affluendo caldo caldo al cuore, lo fa palpi-

tare tra una forte emozione di piacere inenarrabile.         

E allora quando a questo, si aggiungono le carezze,

i baci e la speranza dell’amore corrisposto, allora

la vita vive completamente e baldamente in tutto

l’essere suo. [27]                                                                            

 

CAPITOLO III

La Lingua

Stagnitti nasce pochi anni dopo l’unificazione dell’Italia, in un neostato in cui gli italofoni sono, secondo De Mauro solo il 2,5% ( compresi i toscani ) e, più ottimisticamente secondo Castellani, il 9,5% [28] . Già dalle prime rivolte del 1820/21 e del 1830/31, la questione della lingua aveva acquistato un’accezione romantica e di fondamentale importanza per una stato unito. Si tentò in primo luogo di arginare il francesismo dilagante dal 1700 e in seguito alle conquiste napoleoniche. Nel Marzo 1821, Manzoni auspicò L’Italia, una d’arme, di lingua, e d’altare.

All’inizio del secolo XIX la lingua italiana era forse giunta davvero a un bivio: se non avesse trovato il modo di rinnovarsi profondamente, senza tuttavia snaturarsi, avrebbe potuto ridursi definitivamente a lingua per esercizi accademici e virtuosismi d’arte  (nel melodramma, ad esempio), lasciando pienamente il campo della comunicazione viva al francese per gli usi colti e ai dialetti per i rapporti municipali. [29]

Nel 1859 il ministro Gabrio Casati introduce il principio della gratuità della scuola elementare insieme a sanzioni per quei genitori riluttanti a mandare i figli a scuola. Lo scrittore siciliano ha però la fortuna di appartenere ad una famiglia agiata dove molta attenzione è riservata alla istruzione soprattutto dei figli maschi.  Il suo contatto con la lingua nazionale avvenne molto probabilmente in casa, mentre l’ambiente paesano che lo circondava doveva essere totalmente dialettofono.

A livello accademico erano anni di dibattiti ferventi, tanto che, la questione della lingua si trasformò in questione sociale [30] : nel 1868 il ministro della Pubblica istruzione Broglio emana un decreto affidando ad una commissione di studiosi presieduta da Manzoni , il compito di ricercare i modi coi quali si possa rendere universale l’uso della lingua italiana [31] . Ne derivò un’aspra polemica non solo intellettuale che aveva come principale imputato la lingua fiorentina. La proposta manzoniana della compilazione di un vocabolario dell’uso fiorentino e della preferenza assoluta per gli insegnanti toscani venne bollata come incostituzionale, mentre la sottocommissione di Lambruschini propose di ricercare la purezza della lingua nel popolo contadino.

Inevitabilmente, finì per prevalere la tesi manzoniana: lo stesso ministro Broglio costituì una commissione, da lui presieduta col compito di compilare il Dizionario della lingua italiana. L’opera che ne derivò, Il nuovo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze ribadiva la scelta del fiorentino come lingua nazionale.

Il fiorentino divenne così, per molti autori, come un tratto stilistico indicativo di tono medio, capace di quel registro colloquiale che continuava a sfuggire al loro italiano ancora, in sostanza, solo letterario. [32]

Ma per assistere alla diffusione massiccia dell’italiano che uscì dalle commissioni parlamentari e dai nuovi dizionari [33] bisogna attendere i primi decenni del Novecento, quando la dittatura della formazione di tipo classicistica si trovò a dover fare i conti con l’industrializzazione e tutto ciò che ne derivò. I fenomeni dell’urbanizzazione, dell’emigrazione, del fermo militare obbligatorio, favorirono  il contatto fra italiani dialettofoni che non si capivano immediatamente fra loro, e che inevitabilmente adottarono l’idioma nazionale. In generale la lingua finì per semplificarsi e livellarsi ma, la letteratura non ha seguito questa strada. Non si è semplificata, non si è impoverita. Anzi, sono da registrare come peculiarità della nostra storia recente, per reazione al livellamento in corso: 1) mirabili esempi di sperimentazioni poetiche in dialetto, oggi più che mai vivaci, 2) mirabili esempi di scrittura che ha sfruttato il regionalismo linguistico ( da Verga a Pavese a Fenoglio), 3) l’espressionismo più intenso, il plurilinguismo quasi esasperato , auscultato con l’orecchio filologico;[…] [34]

Non conosciamo la lingua parlata quotidianamente dallo Stagnitti ma possiamo ipotizzare alla luce di quanto emerge dall’analisi dei romanzi che egli fosse prevalentemente dialettofono, ma che conoscesse, a livello teorico e letterario, l’italiano. Del resto nel panorama letterario siciliano di fine ‘800 questa doveva essere la norma:

la prima edizione di Giacinta (1879) di Luigi Capuana indica assai bene la condizione linguistica di partenza di un narratore che sostanzialmente viveva l’italiano come «una lingua seconda» [Stussi 1993, p. 169] e che nonostante questo, aspirava ad una prosa media e unitaria [35]

La risposta pratica più concreta e meglio riuscita linguisticamente all’indomani dell’unità d’Italia è quella proposta dei veristi, opera quasi completamente di autori meridionali o insulari (Luigi Capuana, Giovanni Verga, Federico De Roberto, Matilde Serrao, il primo D’Annunzio, Grazia Deledda, il toscano Renato Fucini) [36] . Essi decideranno di accostare  l’italiano al parlato attraverso un contatto dissimulato con i dialetti. Già dalla seconda metà dell’800 in poi si era affievolita la vitalità della cultura latina, mentre più forti sono gli orientamenti verso la cultura tedesca e francese. Ciò spiega in parte questa apertura al regionalismo.

Lo scritto era fortemente riaccostato al parlato. Il che fu talvolta enfatizzato e snaturarto, si abusò delle fiorentinerie, inondando le scuole di« una colluvie di storie – scrive Ferdinando Martini - , ove i personaggi di Sallustio e di Livio parlavano come i contadini del pian di Lecore o i fruttaroli di via dell’Ariento». Si dava inizio a quella che fu detta la nuova «retorica in maniche di camicia» [37]

Pirandello ha elencato [38] , esemplificandole, le tre forze che agiscono sulla totalità della prosa verista:

-              frammenti di lingua aulica,

-              macchie locali,

-              componenti francesizzanti.

Non tutti i letterati ovviamente opteranno per la stessa  soluzione, né otterranno i medesimi risultati. Diverse sono le tendenze all’interno degli stessi siciliani:

Nel dicembre 1887 Capuana scriveva a De Roberto: «Io sono un gobbo dell’arte, uno che in quarantott’anni di vita non è riuscito né ad apprendere l’ortografia e la grammatica né a persuadersi della sua impotenza» [39]

Scrive ancora a Verga nel febbraio 1881:

 «Io sono tutto immerso nel Marchese Donna Verdina»; eppure quando lo pubblica, persistono, diradati, ma non aboliti, fenomeni di polimorfismo, oscillazioni tra gli estremi dell’arcaismo letterario, del toscanismo moderno, del dialettismo mascherato, senza contare quei costrutti ai margini della grammaticalità di cui certamente Capuana non avvertiva il carattere idiosincratico. [40]

Termine di paragone esemplificativo del panorama linguistico siciliano di fine Ottocento sono i grandi veristi, e ancora più nello specifico Verga e Capuana.

L’uso linguistico del Verga consta di due momenti: uno arcaico, l’altro decisamente manzoniano.

Nella prima stagione Verga si serve di un modo classico di narrare, dove azione e commento costituiscono momenti separati i monologhi fanno parte del dialogo stesso; mentre per quanto riguarda il lessico c’è un tentativo di renderlo più popolare, meno colto e più idiomatico.

Nel secondo Verga invece, assistiamo al graduale estinguersi del ‘commento’, nella ricerca di un dialogo che nasca ‘ da sé ’ attraverso il chiacchierio comune senza ricorrere a descrizioni. La sintassi tende ad essere regolarizzata nella ricerca di tratti caratteristici del colloquiale e del popolare.

In sostanza Verga vive ardentemente la spinta all’unificazione nazionale e quindi linguistica e dimostra di comprendere l’esempio manzoniano recandosi a Firenze per aggiornarsi sull’uso della lingua media, ma non diviene manzonista. Percepisce piuttosto il più concreto processo di unificazione in atto nelle singole regioni italiane e preferisce il siciliano colto (catanese) al traballante fiorentino proposto dal Manzoni. [41]

Verga riuscì a fabbricare un italiano colloquiale, capace di reggere tanto la parte del narratore quanto quella dei personaggi «umili», creando una lingua, che, nell’insieme, è prodotto solo della sua straordinaria invenzione artistica e, per questo, non suscettibile di imitazione, men che mai di riuso ella società. Il modello linguistico da lui elaborato nasce da ragioni letterarie e in quelle letterarie esaurisce la propria vitalità; e, anche rispetto a queste, è talmente avanzato da risultare, sulle prime, sterile.

La critica, anche quella linguistica, interessatissima, come ovvio, al «caso Verga», si è spesso sforzata di trovare nel reale un equivalente dell’italiano dei Malavoglia. Si è parlato del dialetto siciliano che vi starebbe dentro, sia pure travestito; del’’italiano regionale di Sicilia, dell’italiano parlato dai siciliani colti. In verità si tratta, credo, di una lingua immaginaria, costituita di materiali diversi, in gran parte derivati dal dominio dell’oralità (dialettale siciliana e pan dialettale) e immessi in una sintassi originale (di cui il discorso indiretto libero è la spia più vistosa), inconcepibile fuori dalla dimensione della scrittura letteraria. [42]

Dal punto di vista linguistico si riscontrano in Verga e soprattutto ne I Malavoglia alcune caratteristiche non trascurabili, atte a rendere quanto più vera e reale possibile la sua narrazione:

-              il “tempo” de I Malavoglia è l’imperfetto che ha il fine di rendere impersonale la narrazione e quanto più realistica la situazione, questo “tempo” è a seconda delle situazioni fortemente accelerato o dilatato attraverso l’uso di atti deittici che contribuiscono oltrettutto a creare lo spazio di immersione dei personaggi.

-              Periodare secco, conciso, ritmato da dislocazioni a destra e a sinistra a rendere lo stile del parlato.

-              Uso massiccio del che polivalente e del ci attualizzante.

-              Coralità della narrazione.

-              Uso del discorso indiretto libero

-              Commenti anche brevi posti alla fine del periodo. [43]

 

La vicenda ‘linguistica’ di Capuana non differisce molto da quella di Verga, anch’egli realizza il suo soggiorno fiorentino che lascia traccia in certi esiti toscani di tipo vernacolo [44] . Capuana, dopo l’insuccesso del capolavoro verghiano dovuto all’incomprensione da parte del pubblico , andò orientandosi verso scelte espressive meno influenzate dal verismo linguistico e più vicine agli usi medi letterari del suo tempo (mediocritas linguistica). Lo scrittore di Mineo si propone la semplificazione generale del testo e per realizzarla esegue sulle sue opere un ossessivo lavoro di limatura (per completare il Marchese di Roccaverdina impiegò venti anni).

Possiamo esemplificare in alcuni punti le tendenze linguistiche più frequenti in Capuana:

-              L’eliminazione delle forme verbali arcaiche,

-              Assenza del condizionale e abuso del congiuntivo

-              La ricerca della brevità delle sequenze narrative,

-              La prevalenza dei dialoghi,

-              La ricorrenza a parole semplici di alta frequenza.

-              La tendenza a scrivere staccati gli elementi di parole composte ( pur troppo, da prima, a bastanza)

-              La desinenza plurale delle parole in –io molto incostante (rosarii, armadii, ma proprietari, giudiziari)

-              Ipercorrettismi dovuti all’uso quotidiano del dialetto siciliano ( febraio, femina)

-              Italianizzazione di modi di dire siciliani ( inchiodata in fondo al letto = “essiri no funnu i lettu”, gli ultimi quattro giorni di vita = “nautri quattro jorna”)

-              Uso frequente del toscanismo cotesto [45]

La prima edizione di Giacinta (1897) di Luigi Capuana  indica molto bene la condizione linguistica di partenza di un narratore che sostanzialmente viveva l’italiano come «una seconda lingua»

[…]

Lo scrittore si trova a sostenere una prova di forza con lo strumento linguistico necessario al suo narrare. Questo sistema di tensioni sfocia in una prosa composita, segnata da frequenti improprietà ed errori di lingua e dall’intervento di elementi eterogenei: dai sicilianismi ai francesismi. Spiccano in particolare i fenomeni di polimorfismo, che si perpetueranno, anche se diradati sino al Marchese di Roccaverdina [cfr. Stussi, 1993, p. 177]: si hanno casi di oscillazione tra e ed i  nella sillaba protonica (ad esempio in recinto p. 25 e ricinto pp. 25, 32 ), indecisioni tra avea p. 6  ed aveva pp. 6, 81; cuore p. 129 e core pp. 117, 154; dugento pp. 96, 98 e duecento p. 89; omai pp. 18, 141-144, ormai p. 145 e oramai p. 145.

[…]

Sull’intera superficie del romanzo aggallano infatti, con costanza quasi ossessiva, i toscanismi, la cui adozione è motivata dalla volontà, espressa da una posizione subalterna e destinata all’insucesso, di confezionare ad una scrittura che risponda ai canoni “moderni” della vivacità e della spigliatezza . L’ascolto del toscano, con cui Capuana entrò in contatto nel corso del suo soggiorno fiorentino, determina numerosi tratti della forma linguistica di Giacinta  . [46]

In Giacinta è molto forte lo scarto tra la lingua “media” del narratore e quella aulica dei personaggi. Nel processo di riedizione, l’intento generale fu quello di svincolare il testo dai termini aulici e iperletterari avvicinandolo al linguaggio “medio” dei Malavoglia. Il Capuana di Giacinta vuole presentarsi quasi come un “conversatore”, impacciato però da una difficile relazione con la realtà dl parlato, rimasta ibrida e colta, letteraria e artificiosa.

Difficile e impacciato risulta essere anche il rapporto fra la lingua nazionale e quella del teatro contemporaneo.

Verga  trasferisce le novità linguistiche sperimentate dal romanziere nel drammaturgo ed in particolare nel suo capolavoro: Cavalleria Rusticana dove, una certa coloritura regionale, non tanto nel lessico quanto nel tono complessivo del discorso, è frutto d’una scelta deliberata.

In questa opera   possiamo  sottolineare [47]  oltre  alla scelta  di nomi prettamente siciliani per i personaggi (Turiddu, Santuzza), gli appellativi di cortesia (gnà e zio); la collocazione del verbo finito in fondo alla frase ad imitazione della sintassi locale «niente sò», «tardi arrivate»; l’uso del passato remoto in luogo del passato prossimo «Difatti non v’ingannaste del tutto», «come fosti buona!»; la frequenza delle allocuzioni dirette di un personaggio al suo interlocutore al fine di marcare più nettamente le scansioni dialogiche:

COMPAR ALFIO: Cosa avete detto, comare Santa?

SANTUZZA: Dico che mentre voi siete fuorivia, all’acqua e al vento, per amor del guadagno, comare Lola, vostra moglie, vi adorna la casa in malo modo!

COMPAR ALFIO: Pel nome di Dio, gnà Santa, che se siete ubriaca di buon’ora la mattina di Pasqua, vi faccio escire il vino dal naso!

SANTUZZA: Non sono ubriaca, compar Alfio, e parlo da senno

( Cavalleria Rusticana, V ) [48]

Caratteristiche analoghe si ritrovano in Federico De Roberto [49] , almeno nell’atto unico Il Rosario del 1899. Richiamano il Verga , oltre alla sentenziosità dei personaggi: «chi a vent’anni non sa, a trent’anni non fa; a quaranta non ha fatto e non farà», l’uso dei modi idiomatici e di connettivi testuali: «mi pare, guarda, che un bel giorno potrebbe anche venire qualcuno a chiedermi in isposa». Nella recita del rosario che occupa la terza e l’ultima scena,le preghiere pronunciate dalla spietata Baronessa di Sommatine sono inframmezzate a spezzoni di chiacchiere profane, con effetto mimetico e insieme con l’intento di sottolineare il carattere meramente formale dell’ostentata religiosità della baronessa:

Ave Maria piena di grazie, il Signore è con voi, voi siete benedetta fra tutte le donne, e benedetto è il frutto del vostro ventre: Gesù… Quello che accompagnava donna Isabella Ballanti, domenica, in chiesa, non era suo figlio?.

Il lessico di De Roberto è comunque più prettamente ascrivibile ad un genere ‘franco’, lontano sia dai toscanismi che dai dialettalismi, uno stile semplice che si palesa, oltre che nella creazione di uno stile  adeguato e personale per ogni personaggio, nella disseminazione di elementi tipici dell’oralità in un intento di mimesis dialettale, nella stilizzazione parodica dei discorsi solenni, nell’uso frequente del che polivalente, nel ricorso ad artifici grafici adibiti alla resa della cadenze dell’oralità (uso del corsivo, sillabazione delle parole) [50]

Il colore locale inizia a scolorirsi fino a scomparire nel teatro appena successivo. Ne La figlia di Iorio di D’Annunzio, pur essendo forti i legami con fonti popolari abruzzesi l’atmosfera generale è lontanissima dal verismo: contadini e pastori parlano un italiano con patina nobilmente arcaica molto lontano dallo stile dei Siciliani.

La lingua adottata dallo Stagnitti è perfettamente incasellabile all’interno del panorama letterario italiano. È una lingua coltissima, infarcita di termini dialettali antichi, ricercatezze linguistiche che lo scrittore non poteva conoscere se non attraverso le sue letture. Attraverso questi termini, e alle numerose citazioni intertestuali, è possibile ipotizzare sommariamente quali fossero i testi che Stagnitti possedeva. Tra questi espressamente citati: le Poesie di Enrico Heine, Il matrimonio di Figaro del Beaumarchais [51] , l’ Orlando Innamorato del Boiardo, i padri della chiesa (in Elevazione), La Signora delle Camelie, l’Illiade [52] , e anche se lo cita espressamente una sola volta, nella copertina de Le Fidanzate [53] , Stagnitti doveva conoscere bene Dante.

Le scelte linguistiche di Stagnitti, sono chiaramente dettate da un desiderio di aulicità che lascia spazio di sovente a soluzioni alternative di uso comune che, in quegli anni, tendevano ad affermarsi nell’uso parlato.

È il caso delle varie alternanze tra:

colle [54] / con le [55] , avea [56] / aveva [57] , codesta [58] / questa [59] , parea / pareva [60] , ei / egli [61] ;

Dell’uso ossessivo della i- prostetica :

isfogare [62] , iscrivere [63] , ispaventevole [64] , ischerzo [65] , isforzo [66] , ismania [67] , istanchezza [68] ;

Dell’uso di termini letterari pedanti o puramente letterari tanto ricercati anche da D’annunzio:

sodisfazione [69] , instituzioni [70] , sopratutto [71] , imaginare [72] , ricapito [73] , riputazione [74] , giuochi [75] , anderà [76] , tralascierei [77] , scancellature [78] ,tosto [79] , poscia [80] , teco, meco [81] .

Numerosissimi i costrutti toscaneggianti:

Ti ho detto le mille volte che io non sono un ciuco [82] ,  fo i miei doveri [83] , io mi fo gran meraviglia [84] , io non credo mica al progresso [85] , ma non mica morta [86] , non trovo punto piacevole [87] , ci ha delle linguacce e molte in questo mondo [88] , a mò [89] , ma che vai tu dicendo [90] , le son tutte grullerie [91] , le sono cose da romanzi, le son cose da matti! [92] , correvano all’impazzata tra il pigia pigia [93] , le son  cose da nulla [94] ;

quelli con verbi di uso desueto:

in altri non avria potuto sperare [95] , vi avria fatto incarcerare [96] , egli ti potrebbe torre da qualunque imbarazzo [97] ;

o quelli derivanti dall’uso del siciliano parlato, che solo molto raramente intervengono a punteggiare il tono alto della narrazione:

in questo mentre, inebbriante, nel mentre.

 

CAPITOLO IV

Le Opere

 

Breve introduzione: Il teatro del secondo ottocento

Stagnitti esordisce come autore di teatro con due opere di tematiche analogamente patriottico-amorose, si tratta di Amata ed Elda.

Sul teatro patriottico del Risorgimento manca un’opera critica e un’ordinata raccolta di testi [98] :

La nostra storiografia teatrale, in genere considera il teatro patriottico del Risorgimento come un episodio esiguo e minore, un pittoresco fenomeno di costume, animato dall’irruenza vitale di grandi attori e dalla momentanea adesione del pubblico, piuttosto che come una testimonianza significativa della nostra vita culturale [99] .

Doglio identifica l’origine del teatro patriottico nei primi spettacoli del Teatro Giacobino, durante la campagna napoleonica del ’96 e la fine con gli anni successivi alla presa di Roma.

Il teatro rimane comunque un genere marginale per la prima metà del secolo rispetto alla lirica e alla narrativa. All’origine fu l’opera di Alfieri il massimo termine di paragone del teatro risorgimentale, mentre già dalla seconda metà dell’800  si ripudiò il modello “classico” alfieriano, per la tragedia “storica” teorizzata da Schlegel  e Schiller, basata su argomenti di storia nazionale in cui si fondono l’eroico e il patetico, si rispetta il vero storico e ci si libera da regole prima imprescindibili quali il rispetto delle tre unità aristoteliche.

Il teatro risorgimentale è comunque la prima manifestazione in Italia del romanticismo, ed in questo esordio la fa da maggiore l’opera del Manzoni: sia il Conte di Carmagnola (1816-1820) che  l’Adelchi (1820-1822) sono riflessioni (anche indirette come nel caso del Conte) sui fatti storici contemporanei. In teatro, comunque, l’opera più fortunata del primo romanticismo italiano fu Francesca da Rimini di Silvio Pellico: la Francesca lanciò infatti la nuova moda del dramma romantico italiano allusivamente patriottico [100] .  Anche Nievo, prima della sua grande opera Le confessioni di un’italiano, si dedicò nel ’57 a due tragedie in versi: I Capuani e Trace.

Da un punto di vista delle organizzazioni invece, quella più fortunata fu la Compagnia Reale Sarda, creata a Torino nel 1820 da re Vittorio Emanuele I. Intorno agli anni ’50, tuttavia si assiste ad un’eclissi del genere teatrale classico a favore di uno emergente, quello musicale. Le stesse tematiche dei letterati e dei drammaturghi furono trasposte in melodramma da musicisti del calibro di Rossini, Bellini, Donizzetti e soprattutto Verdi: nel Nabucco rappresentato nel 1842 alla Scala, il coro «Và pensiero sull’ali dorate», intonato dagli ebrei esuli e oppressi dallo straniero, risuonò come la voce stessa del popolo italiano. [101]

In seguito alla situazione creatasi dopo l’armistizio di Villafranca (1859), si ampliarono le aree culturali, arricchendosi dell’apporto, non solo artistico, degli intellettuali viventi nelle diverse regioni. Tale confluire fu magistralmente stimolato e diretto per più di un decennio da un colto uomo di teatro, il quale costituì nel ’59 una grande compagnia teatrale, scritturando i più celebri attori e rappresentando le maggiori novità italiane: si tratta di Luigi Bellotti Bon.

L’impresa dei mille ispirò numerose opere teatrali ma di livello modesto. In seguito s’intensificò l’apporto d’autori di diverse regioni al repertorio patriottico ma il teatro postunitario si differenzia da quello precedente per la forte carica satirica ed ironica rivolta agli organismi di recente formazione: ormai superato il momento entusiastico gli autori si dedicano alla descrizione, positiva o meno, della realtà nazionale all’indomani dell’unità. L’impegno dei nuovi autori è stato lucidamente individuato e precisato dall’Apollonio:

 « Gli autori del nuovo tempo tengon di occhio una realtà ancora di fresco uscita dalla storia, lo stato-nazione d’Italia e s’affrettano ad educarlo… l’Italia nazione-stato era una realtà già chiara nelle ideologie nazionali e ancor troppo poco concreta: bisognava appunto farla (questo voleva dire D’Azeglio: l’Italia è fatta, facciamo gli italiani). Il teatro di prosa si disponeva appunto a questo…» [102]

Molto più significativo che in precedenza è adesso l’apporto degli autori meridionali, nello specifico Giuseppe Rizzotto autore della commedia in tre atti “I mafiosi” e Vincenzo Padula con “Antonello capobrigante calabrese”.

 

Gli anni successivi all’unità ed alla presa di Roma furono caratterizzati nella letteratura come anche nel teatro dalla produzione verista degli autori dialettali. Ciò è indicativo di quanto fosse ancora forte l’identità regionale in uno stato di recente formazione. I testi più significativi di questa fase appartengono ai generi della narrativa e della poesia, mentre pochissimo spazio occupa il teatro patriottico:

  l’aspirazione di Mazzini a una letteratura dalle  forme nazionali e dal concetto europeo restò irrealizzata, mentre i teatro del Risorgimento si riempiva dei tentativi degli epigoni, incapaci di fondare una tradizione autenticamente nazional-popolare, come era avvenuto in quegli anni in Germania con Lessing dapprima, con Schiller e Goethe dopo, in Francia con Hugo, Dumas, Vigny e Musset, perfino in Russia con Puskin e Gogol, ovunque si fondava cioè un grande teatro borghese in grado di accogliere e di interpretare la realtà di una nazione moderna. I motivi di questa situazione sono da ricercare, oltre che nei limiti generali della nostra cultura romantica, nelle carenze croniche del teatro italiano, nella mancanza di una tradizione valida e attuale (gli stessi Goldoni e Alfieri chiudono un’epoca piuttosto che preludere a nuovi tempi), nella mancanza quindi di un linguaggio teatrale che non fosse quello della Commedia dell’arte, giunta ormai alle ultime manifestazioni, e del Melodramma, nella mancanza infine di un pubblico in grado di accogliere e di apprezzare le nuove opere. [103]

Dagli anni sessanta in poi la poetica verista si estende quindi anche al teatro che, fino ad allora, aveva conservato un’impostazione prevalentemente romantica e proposto tragedie di soggetto storico.

Le forme tradizionali di teatro però contrastano con le aspettative di un pubblico borghese che si sente ormai dominatore della storia recente e ricerca narcisisticamente sulle scene le proiezioni delle recenti vicende e l’esaltazione dei valori in cui crede. Il teatro, secondo i principi del positivismo che vanno diffondendosi nella cultura italiana, deve essere un documento del vero, un suo rifacimento fedele che contribuisca a far conoscere la realtà contemporanea.

Le novità che interessano il teatro del secondo ottocento sono di carattere ‘democratico’ e riguardano quindi sia la scelta dei soggetti, sia  il linguaggio da loro adottato: alle rappresentazioni di miti o di eventi del mondo passato, in particolare classico, si sostituiscono ora episodi recenti o vicende che potrebbero essere contemporanee, mentre la lingua si fa più vicina a quella dell’uso corrente, soppiantando lo stile elevato delle tragedie storiche.

La poetica del verismo è il terreno ideale per coltivare questi nuovi cambiamenti in quanto propone una descrizione minuziosa della miseria, economica o spirituale, del mondo popolare secondo il modello rappresentato dalla Cavalleria Rusticana di Verga.

Per la commedia, quello del secondo ottocento è un periodo di alterne fortune, quindi: se da una parte è l’epoca delle grandi compagnie e dei grandi attori ( basti menzionare Eleonora Duse, Tommaso Salvini ed Ermete Zacconi), dall’altra il prestigio letterario e genere teatrale è molto basso, fermo addirittura a Goldoni. In un’intervista di Ugo Ojetti, scrittori del calibro di Federico De Roberto, Pascoli, Marrani, Giocosa, Verga, concordano nel definire il teatro una «forma inferiore» rispetto al romanzo. Dice a tal proposito proprio Verga:

Ho scritto pel teatro, ma non lo credo certamente una forma d’arte superiore al romanzo, anzi lo stimo una forma inferiore e primitiva, soprattutto per alcune ragioni che dirò meccaniche. Due massimamente: la necessità dell’intermediario tra autore e pubblico, dell’attore; la necessità di scrivere non per  un lettore ideale come avviene nel romanzo, ma per un pubblico radunato a folla così da dover pensare a una media di intelligenza e di gusto a un average reader , come dicono gli inglesi. E questa media ha tutto fuori che gusto e intelligenza; e se un poco ne ha, è variabilissima col tempo e col luogo. [104]

L’insufficienza del teatro contemporaneo nell’opinione degli scrittori ha la sua radice fondamentale nella scarsa credibilità linguistica, nella povertà e nell’impaccio dei dialoghi. Una via d’uscita, in questo senso poteva essere il teatro dialettale al quale lo stesso Capuana finì per convertirsi. Proprio commedie dialettali sono i più grandi successi dell’epoca: Le miserie d’monssù Travet del piemontese Vittorio Bersezio (1863), Lo bono marito fa la bona mugliera di Achille Torelli (1866).

Il teatro di Stagnitti, che non ha nulla di dialettale ma che si distingue per l’impaccio dei dialoghi, è catalogabile in quel filone che, pur considerato veristico dai critici del tempo, è oggi etichettato come “teatro borghese” [105]

In essi è messa in scena la crisi della famiglia, che si manifesta nella trasgressione della fedeltà matrimoniale, nell’importanza data al lavoro, che porta successo e denaro, e alle preoccupazioni economiche, che impongono sacrifici e debiti disonorevoli. Molte di queste situazioni sono riproposte fino a Novecento inoltrato, così da costituire veri e propri modelli convenzionali. La rappresentazione delle crisi matrimoniali, degli adulteri, dei triangoli amorosi, tutti sullo sfondo dei medesimi ambienti sociali e culturali, si conclude tuttavia con la riaffermazione dei valori più tradizionali della borghesia, che rappresenta l’asse portante del pubblico del teatro. [106]

In Italia il teatro di secondo ottocento riproduce quasi ossessivamente le medesime formule:

-              il punto di avvio delle vicende è una trasgressione o una condizione di difficoltà,

-               lo scioglimento finale è invariabilmente la riaffermazione dei valori tradizionali.

Anche i personaggi sono disegnati in funzione di questa parabola e, soprattutto, presentano caratteri nei quali gli spettatori si possono riconoscere ed immedesimare.

Così il teatro di secondo ottocento diviene uno dei maggiori strumenti di affermazione e divulgazione della contemporanea ideologia sociale di uno stato nato, politicamente, in tempi assai recenti. Per questo si moltiplicano gli scrittori di opere sceniche, anche se la maggior parte della loro produzione ha un carattere minore e oggi è dimenticata. Tra gli autori dotati di una originale personalità va ricordato il piemontese Giuseppe Giacosa (1847-1906) che, pur non distaccandosi dagli ambienti della più comune vita borghese e dai temi più diffusi, come il triangolo amoroso in Tristi amori (1887) o le difficoltà economiche familiari in Come le foglie (1900), trasmette un profondo senso d’inquietudine destinato a incrinare il saldo ottimismo dell’ideologia borghese.

 

AMATA, COMMEDIA IN TRE ATTI

 

È una commedia in tre atti del 1885.

L’azione ha luogo in Palermo, l’anno 1860 [107] , la capitale siciliana è fervente di patriottismo per il recente sbarco di Garibaldi, da ora in poi – centinaia di giovani dalle belle aspirazioni saranno uccisi dal ferro degli sgherri… E per essi non vi sarà né vittoria…, nulla. [108] - La giovane Amata Rifredi appartenente ad una nobile famiglia palermitana, sogna di sposare il barone Silvio di San Giusto. La famiglia di lei si impegna quindi, secondo l’uso dell’epoca in sontuose feste alle quali partecipano le personalità più in vista della Palermo bene. Le feste e la vita dispendiosa della famiglia Rifredi inducono però il capo famiglia, Cavaliere Giovanni, a una tale indigenza da chiedere un prestito al cugino Guglielmo Siriani, vecchio banchiere.

La signora Rifredi continua intanto a spendere smodatamente senza rendersi conto delle ristrettezze nelle quali la famiglia ormai si ritrova, accusando invece il marito d’avarizia. Egli dal canto suo se la prende con le donne che – non so per qual cagione mancate assolutamente di quelle facoltà intellettuali, le quali sono necessarie per poter discernere il bene dal male [109] -

Anche il cugino Siriani lo ammonisce: - la moglie deve essere considerata, e sempre col cervello umano, come un fragilissimo e gentile giocattolo, onde ogni marito che abbia sale in zucca, deve con destrezza maneggiare il suo giocattolo, trastullarsi con esso quanto meno si può, e tenerlo sempre lontano da quei luoghi dove la fragilità di esso giocattolo potrebbe pericolare [110] -.

Intanto Amata riceve una lettera da parte di suo cugino Paolino Siriani, figlio del banchiere nella quale il giovane le confessa il suo amore. Amata, che è innamorata di Silvio gli restituisce la lettera invitandolo a desistere

Il cavaliere Siriani continua a pretendere di poter riscuotere il proprio debito che Giovanni Rifredi non può più pagare. Ormai alle soglie della povertà Rifredi chiede l’ennesima proroga ma il cavaliere Siriani gli propone un accordo: il matrimonio di suo figlio con la signorina Amata. In questo, oltre a fare contento il figlio, egli salverà l’onore della famiglia Rifredi, concedendo un matrimonio vantaggioso alla giovane donna che altrimenti dovrebbe rinunciarvi data la penosa indigenza della famiglia.

Il Rifredi al culmine della gioia accetta, e inoltre confessa al cugino di aver contraffatto la sua firma su una cambiale. Questa  confessione renderà ancora più grave la sua posizione agli occhi del creditore, che lo accuserà di essere un ladro, un falsario ed un vile truffatore.

Giovanni Rifredi comunica quindi, nella scena X del secondo atto, la propria decisione alla famiglia e soprattutto alla figlia. Amata lo implora, cercando di convincerlo che lei non sposerà Paolino, ma il padre la ricatta prefigurandole un avvenire di stenti e miserie, talmente realistico da apparire imminente per lei e per tutta la famiglia.

Amata medita in segreto di fuggire col suo amato Silvio, ma proprio quando sta per accingersi  a realizzare la sua drastica decisione, decide di rinunciare al suo amore per Silvio, di tornare da suo padre e renderlo ancora una volta orgoglioso di lei col suo atto di profonda ubbidienza. Ma anche Paolino a questo punto si rende conto di dover sposare una donna che lo accetta con sacrifizio senza affetto [111] e decide di allontanarsi.

Il giorno stesso Amata riceve una lettera da parte di Silvio nella quale il giovane fervente d’amore e di patriottismo, la informa di essersi arruolato. Amata per la troppa emozione sviene.

L’atto terzo si apre con Amata ancora malata, a letto mentre delira pensando a Silvio. Presto giunge Federico, un patriota amico di Silvio il quale informa lei e le famiglie che Silvio è morto dove è bello ai giovani il  morire [112] .

Apprendendo l’atroce notizia muore anche Amata – ma l’una è morta fra i dolcissimi ricordi di un puro amore; l’altro morì fra i sospirati canti di vittoria dei soldati. [113] -

Con questa affermazione che ha il sapore di una massima si conclude la prima opera teatrale di Stagnitti.

Analisi critica dell’ opera

L’Amata, opera d’esordio dello Stagnitti è paradossalmente la più ricca di spunti e tematiche che si ritroveranno in tutta l’opera successiva, ma mai tutte insieme e così sviluppate come in Amata. Preponderanti sono le tematiche di natura patriottica, ma anche le riflessioni sul sentimento dell’Amore, sulla natura delle Donne e sul rapporto fra genitori e figli.

La Commedia è compresa in una collana identificata sotto la dicitura di TEATRO ITALIANO CONTEMPORANEO, della quale costituisce il Fascicolo n° 92.

L’amore è innegabilmente il fulcro tematico di un’opera che si intitola ‘Amata’. La giovane signorina, “amata” da due uomini,  Silvio e Paolino, finisce per morire sola e abbandonata da entrambe, non “amata” da nessuno.

In tal senso, Stagnitti ha la capacità di condensare in un unico lemma, che ne caratterizza il titolo, il senso stesso dell’opera. 

Amata rappresenta il vertice delle riflessioni di ardore patriottico maturate dal giovane scrittore.

Le localizzazioni storiche sono molto precise:    

TER: Dal quarantotto fino adesso, sono passati dodici anni, caro signor Rifredi.

GIA: E sapete? Sono già alquanti giorni che i soldati di Garibaldi arrivarono a Marsala

TER: E si dice che, fra poco Garibaldi sarà qui in Palermo. [114]           

Più avanti:

SIL: O signori, una fausta novella: E’ stata già conseguita dai nostri fratelli una bellissima vittoria…

FED: Garibaldi , coi suoi mille, ha già messo in rotta il nemico a Calatafimi… [115]  

Siamo quindi oltre il 15 Maggio 1860, data della gloriosa battaglia. A partire dalla seconda metà dell’opera il tempo della narrazione rallenta:

EUG: Uh! Figlia mia, non c’è poi tanto bisogno che il tuo promesso sposo vada adesso alla guerra. I nemici sono quasi interamente disfatti. Marsala, Calatafimi, Palermo sono in mano dei nostri; Messina? E Messina, si dice che tra breve sarà libera: quanto prima le truppe borboniche lasceranno Catania; dunque non resta che abbattere quei nemici che si sono accastellati in Milazzo. Garibaldi ha vinto tante battaglie, ed egli, senza di voi mio caro Silvio, sarà vittorioso anche in Milazzo.              

Solo il 20 Luglio Garibaldi, sconfitti i borbonici a Milazzo, avrà il controllo generale dell’isola. E proprio con il triste epilogo che la battaglia di Milazzo rappresenta per i protagonisti di Amata, si conclude l’opera. Silvio morirà proprio quando la battaglia sarà ormai vinta, e il racconto del suo glorioso trapasso, affidato alla viva voce dell’amico e compagno Federico, è fra le note più gloriosamente patetiche dell’Amata:

GIA: E Silvio?... Deh, dite. (trepidante) Fu sanguinoso il conflitto? Chi era il vostro capitano? E mio figlio era con voi?

FED: Un patriota, un intrepido: Nicola Fabrizi era il nostro capitano. Egli poche ore prima dell’alba di ieri ci ordinò di occupare la via di Spadafora. Era già l’alba. Ogni comandante con animo invitto attendeva gli ordini di Garibaldi. Il combattimento principiava vivissimo da ogni parte della nostra linea. E noi col nome d’Italia nel cuore e sulle labbra ci lanciammo sulle truppe regie. Il nemico resisteva con ostinatezza terribile, e guadagnava terreno. Sanguinosa era la lotta: quanti giovani belli, amati, coraggiosi e magnanimi lasciai sul campo orribilmente mutilati e morti! I compagni ci cadevano d’allato come per incanto; un turbine infernale ci copria. Intanto dai nostri petti ansanti voleva erompere a ogni costo il grido di vittoria, ma ci veniva maledettamente serrato in gola dalla furia delle armi nemiche. In questo mentre fu visto arrivare nelle acque di Milazzo il Tukery; Garibaldi immantinente salì sopra di esso per poter dominare il piano di battaglia; osservò, e comandò tosto di far fuoco sur una colonna nemica, la quale usciva in quel momento da Milazzo. La colonna regia fu subito sconfitta. Sicchè noi ci riordinammo con più coraggio e assaltammo con grandissimo accanimento il grosso degli ostinati nemici…

[…]

FED: Silvio, proprio nel momento in cui noi assaltavamo il nemico era al mio lato; e sempre l’uno quasi accanto all’altro caricavamo i nemici. Essi già cedono e quindi fuggono interamente disfatti. Allora io mi voltai per vedere ed abbracciare, in quell’istante di somma gioia per noi vittoriosi, il mio valoroso amico e compagno; non lo vidi…

GIA: (interrompendolo tremante) Ebbene?

FED: feci alquanti passi indietro…

TER: E mio figlio?...

FED: Ahime! Lo trovai disteso in terra. Egli valorosamente aveva ricevuto due ampie ferite nel petto

TER: Il figlio mio! Figlio mio. (cade svenuta)

GIA: E mio figlio vive?

FED: Io subito m’inchinai su di lui e gli diedi il bacio dell’estremo addio. Egli viveva ancora. E mentre che i nostri già vincitori cantavano altamente la vittoria, Silvio, fra il rantolo della morte mi disse: Io muoio dove è bello ai giovani il morire; e che bella cosa è il vivere o il morire, mi disse pure, in sulla terra della patria vittoriosa; indi seguitò a dirmi: Annunzia la nostra vittoria alla mia carissima Amata, dille che io muoio non indegno dell’amor suo e porta tosto a lei fedele e puro questo mio ultimo sospiro. E mi baciò. (s’inchina subito sur il letto e bacia in fronte Amata) E’ morta! [116]

Amata costituisce una modesta pagina ascrivibile all’interno oltre che del teatro patriottico del risorgimento italiano, anche del suscritto “teatro borghese”.

Sono infatti individuabili alcuni tratti canonici di questo “genere”:

-              tutto inizia con la crisi economica: il Cavaliere Rifredi non può più restituire un prestito,

-              l’opera finisce in tragedia, ma c’è sempre spazio per ciò che si propone l’autore,

-              l’affermazione che la morte dei due protagonisti non è poi così negativa visto che sono due modelli da imitare e da invidiare.

Anche nel resto della narrazione sono rintracciabili le caratteristiche tipo del “teatro borghese”:

-              c’è la crisi della famiglia: il Cavaliere Rifredi si ritrova nei debiti perché ha una moglie che spende smodatamente

-              c’è la preoccupazione economica: il Cavaliere non avendo potuto pagare dei debiti, filma una cambiale falsa

-              c’è il matrimonio d’interesse: fra Amata e Paolino che non si amano.

Ma c’è qui, diversamente dal filone tradizionale, un fervido patriottismo che si accosta ai grandi temi dell’Amore e della Morte.

 

Rapporti con altri autori

Amata, come il resto dell’opera dello scrittore linguaglossese risulta imprescindibile dall’opera verghiana. Nel caso di Amata è lampante l’analogia col primo Verga di Amore e Patria e I Carbonari della montagna.

È del 1857 Amore e Patria, espressione di un’anima tanto accesa quanto immatura, e che dichiara appunto fin dal titolo quali fossero gli oggetti cari alla sua immaginazione [117] .

Sulla medesima traccia storica e patriottica di Amore e Patria, esce, fra il 1861 e il 1862, I Carbonari della montagna in quattro volumetti presso l’editore catanese Galàtola. Il romanzo descrive la lotta della popolazione calabrese, sotto la guida della carboneria, contro gli invasori francesi di Francesco Murat, con l’aggiunta di un’infelice storia d’amore: in una notte buia e tempestosa la giovane Giustina chiede asilo nel castello del cugino Francesco, conte di S. Gottardo. Ma la permanenza di Giustina si protrarrà ed essa entrerà a conoscenza del fatto che il cugino è un’esponente di spicco della carboneria calabrese.Grazie a lui conoscerà il Gran Maestro del quale, secondo il più classico dei soggetti si innamorerà. Ma l’amore passionale e disinteressato non è destinato alla vittoria: durante le repressioni si inizio ‘800 il Gran Maestro viene arrestato e Giustina per volere della zia morente, sposerà il cugino Francesco.

Nel romanzo Verga esemplifica la personale ammirazione per l’ardore di quegli uomini che hanno fatto l’Italia, paragonandoli a Garibaldi, Carlo Alberto,  Vittorio Emanuele. Dunque Verga scrivendo I carbonari combatte la sua battaglia personale per l’unità italiana [118] . Lo stesso intento si propone probabilmente Stagnitti ma risultano evidenti i limiti di simili prove: i protagonisti sono figure psicologiche statiche e monocordi. Il motivo fondamentale dell’amore invece diverrà per entrambi gli autori dominante nelle opere successive: basti citare per Verga Una peccatrice, Storia di una capinera, Eva, Tigre Reale, Eros.

Tornando alle analogie tra i due scrittori:

mentre la stesura de I Carbonari della montagna si compie contemporaneamente all’avanzata garibaldina, la storia di Stagnitti, seppur scritta qualche anno dopo, è ambientata nel medesimo periodo storico;

il lettore  non deve e non può far altro che prendere atto dei furori patriottici degli ardori giovanili per quanto riguarda Verga, un pò meno giovanili per Stagnitti.

Dal punto di vista della narrazione, le espressioni enfatiche sono del tutto simili. Dice dei soldati Verga in Amore e Patria:

Il giovane soldato scintillava di gioia e d’entusiasmo [119]

Mentre Stagnitti:

GIA. Viva i militi della patria!

FED. Viva i difensori della libertà! [120]

Anche nel momento dell’estremo sacrificio per amor della patria, i due si pongono in maniera analoga, così che l’estremo saluto vede sempre il confronto inevitabile con la madre. Dice Tom in Amore e patria:

-       Ah! Madre mia, madre mia! – mormorò il giovane soffocato dai singhiozzi.

-       Perché piangere Tom? La morte è forse una disgrazia per noi povera gente? –

[…]

-       No, Figliol mio, è la verità; morire per noi è un benefizio che ne abbiamo di questa vita? Ama il tuo paese dopo Dio mio Tom, in quanto al mio povero uomo noi non ci differiamo di molto, consolalo come puoi, perché io vi lascio. [121]

E Federico raccontando dell’amico morto in guerra in Amata:

FED: feci alquanti passi indietro…

TER: E mio figlio?...

FED: Ahime! Lo trovai disteso in terra. Egli valorosamente aveva ricevuto due ampie ferite nel petto

TER: Il figlio mio! Figlio mio. (cade svenuta)

GIA: E mio figlio vive? [122] .

 

I temi dell’amore e della patria non sono appannaggio unico dei nostri siciliani. Bisogna necessariamente citare a tal proposito due  coetaneii ‘minori’ che hanno esemplificato tali temi soprattutto in poesia: Aleardo Aleardi (1812-1878) e Giovanni Prati (1814-1884).

L’Aleardi è poeta della storia, in quanto la sua scarsa produzione sembra concentrarsi soprattutto intorno ai temi della Patria e della Storia, e più propriamente sulle possibili convergenze fra passato e presente, allo scopo di prevedere il futuro, trarne conseguenze e conclusioni all’insegna del patriottismo.

Il Prati, sicuramente più fortunato del primo, scrisse moltissimo e soprattutto di tre temi: Patria, Amore e Poesia, rispecchiando come nessun altro in quegli anni, la mentalità e il gusto degli strati borghesi e moderati, dei quali accoglieva, e ai quali ridava in poesia, temi e spiriti, in un anelito, sincero anche se confuso, a una vita interiore calda di nobili affetti, in cui Patria e donna si fondessero in un solo ideale; in una identificazione di questo mondo interiore con la poesia … [123]

L’autore di Edmengarda è fra i più fortunati della sua età. È  colui che meglio esprime, con varietà di forme, la tendenza melodica e musicale della lirica romantica, stati d’animo e atteggiamenti ideologici e sentimentali di vasti settori della borghesia moderata: un patriottismo enfatico, ma generico nei contenuti, un interesse per la storia tradotto in vagheggiamento evasivo del passato.

Ma le sorti della letteratura risorgimentale si modificano con lo scorrere del tempo. In realtà, se i narratori godono degli ultimi favori del pubblico con il romanzo storico-patriottico, dai toni oratori e ferventi, che ha accompagnato la stagione delle battaglie risorgimentali, poeti romantici come Prati e Aleardi colgono le aspirazioni nuove di un pubblico borghese che, messa dietro di se la tensione ideale dell’indipendenza, è ora attratto dalla dimensione sentimentale della letteratura. È proprio la caduta delle grandi spinte ideali del risorgimento, venute meno con la proclamazione dell’Unità d’Italia e con il consolidamento della nuova classe dirigente italiana, a sollecitare nuove esperienze e nuovi orizzonti letterari

 

ELDA VESTRINI, Commedia in cinque atti

 

È una commedia in cinque atti del 1887 ambientata a Venezia nell’epoca presente [124] .

La scena si apre in un salotto bene della borghesia veneta, casa Vetrini, dove amici, parenti ed illustri ospiti stanno parlando della scapataggine del giovane Marino Vetrini. Egli  aveva convinto il padre a mandarlo a studiare a Roma , ma questi, dopo qualche mese, viene a sapere che il figlio non frequenta affatto l’università ma che invece convive con una cantante d’operette, Chiarina.

 Il padre racconta ancora di essere stato a Roma a riparare alla condotta del figlio e di essere riuscito a ricondurlo con se a Venezia. Ma dopo pochi giorni Marino ripartì a rotta di collo per Roma.

Infine, dopo essere rimasto nuovamente senza denaro, Marino decide di far ritorno a casa, dove dovrà sottostare ai rimbrotti della famiglia, dei parenti e dei vari amici, convocati per l’occasione, pronti a rimproverarlo per la sua leggerezza. Dopo essersi riappacificato con i genitori e dopo essersi impegnato a dimenticare le sue fughe d’amore per iniziare una nuova stagione all’insegna della serietà, Marino è nuovamente vinto dalla malinconia per la sua amata ed in un impeto di follia, pur tanto attaccato alla vita, decide di suicidarsi. Ma dopo aver febbrilmente cercato la rivoltella nel cassetto del padre, subito prima di puntarsela alla tempia, vorrà scrivere due parole di addio a Chiarina. Intanto, però, destino vuole che la sua attenzione sia catturata  da un pacco di polizze di banco riposte nel medesimo cassetto della pistola. Allettato da tanto denaro, Marino decide di tramutare  il  tragico intento in fuga.

La sua famiglia piomba nuovamente nella più buia disperazione: sua madre, la signora Costanza, si ammala e a suo padre èrecapitato un mandato di cattura. Il denaro rubato da Marino, che ammonta alla considerevole somma di dieci mila lire, apparteneva infatti alla amministrazione del signor Vestrini  che ora è accusato di furto.

Intanto, a fare le spese della povertà della famiglia è la giovane Elda la quale  finisce per farsi sedurre dal prestigioso Cavaliere Quirino Valneri, ma di ciò si verrà a conoscenza solo nel finale.

Un nuovo personaggio irrompe sulla scena: la cugina Elena, fredda calcolatrice, che in una sua inaspettata visita  propone in gran segreto il matrimonio fra Elda e il commendatore Valneri.  Il matrimonio, sostiene Elena, servirà a cancellare il debito di dieci mila lire contratto dai Vestrini  e, dato che il cavaliere è molto facoltoso, a salvare il buon nome della famiglia e ad accasare Elda. Costanza, però accoglie malamente l’offerta e caccia Elena da casa propria.

Elda, era già promessa a Giuliano Livardi e lo zio del suo promesso sposo, Antonio Livardi, finirà per incontrare in casa Vestrini  il cavaliere Vulneri, provocando a quest’ultimo un enorme imbarazzo.

Dopo quasi sette mesi, il signor Vestrini viene scarcerato e si reca a Lugano, dove intanto si era recato il figlio Marino in seguito alla sua folle fuga. Da lì, Marino lo manda a chiamare dichiarandosi moribondo. Invece, egli desidera solamente raccontare al padre la sua triste avventura nella speranza di un conforto e nella ricerca del perdono: dopo essere fuggito a Montecarlo con la sua amante scoprì che essa preferiva correre dal miglior offerente, non facendo mistero della sua predilezione per uomini ricchi. Così Marino, dopo aver pagato un altissimo prezzo morale, decide finalmente di mettere fine alla sua leggerezza giovanile, riesce a sbarazzarsi di lei e restituisce al padre, grazie ad una grossa vincita, il denaro che gli aveva sottratto.

Ma a questo punto Nicolò Vestrini, calcolando il fatto che sua figlia non ha una dote e Giuliano non ha una posizione economica stabile, rifiuta allo zio del promesso sposo la mano di Elda [125] . Il signor Vestrini viene però contemporaneamente a conoscenza di qualcosa che lo turba profondamente ed esplode in un raptus cacciando di casa la figlia. [126]

Intanto Nicolò viene a sapere che il cavaliere Valneri è sposato e vorrebbe quindi solo disonorare sua figlia (facendone una sorta di mantenuta e approfittando dell’indigenza della famiglia?). I due uomini decidono di sfidarsi a duello con la pistola per il giorno successivo. Ma prima che il duello possa compiersi il Cavaliere si suicida in preda ad un atroce rimorso.

Solo nell’atto quinto lo spettatore viene a conoscenza del fatto che Elda ha avuto un bambino, il cui padre dovrebbe essere il Cavaliere, e che la cugina Elena vuole portarla via con se a Milano, costringendola però a lasciare il bambino.

Nell’ultima scena, quando ormai tutto sembra volgere per il peggio, l’amore e i sentimenti positivi finiranno per avere la meglio come nella migliore tradizione fiabesca: Giuliano invita Elda a rimanere con lui assicurandole che la amerà per sempre e conclude con una della affermazione che sono rito in Stagnitti - il disonore sarà pei delinquenti; agl’innocenti, ai martiri la pietà, l’amore [127] - .

Analisi critica dell’ opera

Elda è il secondo ed ultimo tentativo teatrale di Stagnitti.

È l’unica opera del nostro pubblicata a spese dell’autore, ma fa parte come Amata di una collana ( anche se non della medesima): è infatti identificata con il numero settantanove.

Sono da segnalare alcune incongruenze che riguardano il titolo dell’opera: il Calì la riporta infatti in entrambe le sue citazioni [128] come Elda Vestrini, citando come fonte per la datazione la quarta di copertina di Elevazione.

Esiste effettivamente questa variazione che non si può attribuire ad una inavvertenza del Calì, ma è più probabilmente imputabile ad una svista del tipografo nella quarta di copertina di Elevazione [129] ; oppure ad una incertezza dello scrittore, che indeciso fra le due varianti abbia infine optato per Vestini.

Dal punto di vista della trama si ritrovano tutte le caratteristiche identificative del “teatro borghese”:

-              si esordisce con una trasgressione: Marino mandato a studiare a Roma si dedica a tutt’altro.

-               Si conclude con la riaffermazione dei più nobili valori: Giuliano promette di sposare Elda.

Anche le situazioni sono quelle tipiche di tale genere teatrale:

-              c’è il triangolo amoroso: Elda intreccia una relazione clandestina col Cavaliere Valnieri ma finisce con lo sposare Giuliano;

-              c’è la crisi della famiglia: Marino che scappa con i soldi, facendo finire in prigione suo padre;

-              c’è la preoccupazione economica: Nicolò Vestini che deve restituire i soldi che Marino ha rubato.

C’è anche una figura nuova per le opere dello Stagnitti: quella del malato di mente, incarnata dal povero Orazio, fratello minore di Marino, il quale continua a saltellare attorno al fratello ripetendo quello che lui dice. Orazio fa da contraltare alla seria logica dell’opera, è il folle ma al contempo è l’unico che scopre in anticipo le intenzioni di Marino, anche se nessuno può credergli.

Rispetto all’opera di esordio dalla quale sono trascorsi soltanto due anni, le tematiche che caratterizzeranno l’opera futura dello Stagnitti si modificano e si definiscono. Il soggetto patriottico che costituiva uno dei nuclei tematici di Amata qui si rarefà fino a dissolversi. Con ciò non si registra però un definitivo congedo dalla letteratura patriottico - risorgimentale, ma solo  un lungo momento di sospensione artistica che finirà con La Vita è divina. Nell’ultimo romanzo, Stagnitti ritorna al suo iniziale intento. Le riflessioni di natura risorgimentale in La vita è divina, anche dal punto di vista letterario sono meno languide, più mature e problematiche.

C’è tuttavia un riferimento sottile forse non casuale, alle vicende legate al processo di unificazione italiana. Stagnitti sceglie di ambientare la sua commedia  a Venezia, la città la cui cessione agli austriaci solo un secolo prima provocò tanto risentimento fra gli intellettuali, Foscolo in primis. Altrimenti  perché scegliere proprio Venezia?

Il  tono generale della vicenda però, lungi da tali premesse, risulta leggero almeno nel primo atto. Compare la figura della cantante d’operetta, impersonata dalla pseudofidanzata  di Marino. Personaggio questo rivisitato più volte dallo Stagnitti e che può far teorizzare un riferimento sottilmente autobiografico. La caratterizzazione di questo personaggio sarà tuttavia diversa ne Le Fidanzate. Qui la connotazione è assolutamente negativa: la cantante è quasi sinonimo di perdizione, paradigma di figura femminile assolutamente negativa.

 

Il personaggio ridondante della cantante d’operette si intreccia in Elda Vestini con un altro tema caro allo Stagnitti: il suicidio.

Addirittura nell’Elda i suicidi saranno due: uno tentato l’altro riuscito.

Sono due uomini i protagonisti di questa esperienza estrema, quasi Stagnitti voglia far giustizia delle invettive contro le donne lanciate da uomini nella sua opera precedente. A rafforzare l’ipotesi di un cambiamento di posizione di Stagnitti  nei confronti del gentil sesso il fatto che entrambi gli uomini si suicidino per donne. È anche probabile però che sotto questi suicidi maschili Stagnitti voglia celare maliziosamente l’ennesima prova della negatività femminile.

Il proposito di suicidarsi perché incapace a resistere al richiamo ossessivo, quasi malefico della cantante diventa per Marino l’inizio di una nuova ossessione. Marino da ossesso si trasforma in ladro e  quindi in fuggiasco.

Mentre per il Cavaliere Quirino Valnieri il suicidio è ancora fuga: fuga dal duello, dal disonore, da una morte altrimenti certa, dalla realtà ma soprattutto da un amore impossibile.

Rapporti con altri autori

Gli influssi meglio identificabili in Elda Vestrini derivano da opere precedenti anche straniere, nello specifico:

-   Le Ultime lettere di Jacopo Ortis, di Ugo Foscolo, concluso fra il 1801 e il 1802,

-   I dolori del giovane Werther di Goethe del 1774

-   Sulle Lagune di Giovanni Verga del 1863,

-   Una Peccatrice di Giovanni Verga del 1866,

-   La Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio del 1848

-   Le fleurs du Mal  di Charles Baudelaire del 1857.

Le Ultime lettere di Jacopo Ortis è stato definito dal Binni [130] un «libro aperto» per la lunga serie di correzioni e integrazioni che l’autore effettuerà anche dopo la teorica conclusione. L’autore ne avviò la stesura nel 1798 a Bologna, riprendendo forse un progetto del 1796 indicato con il titolo Laura, lettere. L’idea originaria era quindi probabilmente quella di intitolare l’opera al femminile. Poi, forse per l’influenza con I dolori del Giovane Werther di Goethe il titolo iniziale fu cambiato. È un romanzo epistolare che lo ricollega oltre che al Werther alla Clarissa di Richardson e alla Nouvelle Héloise di Rousseau.

La storia di Jacopo, che è riconosciuta come il primo grande romanzo italiano moderno, è presentata attraverso le lettere che il protagonista, un giovane patriota veneziano, indirizza all’amico Lorenzo Alderani. La prima parte del romanzo è ambientata nei colli Euganei, dove Jacopo si ritira nei giorni del trattato di Campoformio per insistenza della madre, timorosa che possa essere perseguitato per i suoi ideali patriottici. Il giovane Jacopo si innamora, ricambiato, della bella Teresa, cui lo accomunano l’animo appassionato, la disposizione alla poesia e l’affetto per la patria. Deve rinunciare al sogno di un legame matrimoniale, poiché la fanciulla è stata promessa dal padre al mediocre ed agiato Odoardo.

Nella seconda parte del romanzo, Jacopo, anche per risparmiare all’amata inutili sofferenze, prende a viaggiare per l’Italia, senza un progetto preciso, sospinto da un’irrequietudine implacabile.

Infine, consapevole della vanità del proprio vagabondare e persuaso di non avere altro da sperare che la morte, decide di tornare in patria. Lungo la via del ritorno riceve la notizia del matrimonio di Teresa e matura il proposito di uccidersi che porterà a compimento poco tempo dopo il suo ritorno.

Le analogie riscontrabili con la seconda opera dello Stagnitti sono di carattere generale ma anche più specifico: riguardano il tono e il carattere della narrazione ma anche i personaggi e le vicende.

A proposito de Le ultime lettere di Jacopo Ortis:

… il suo mirare al “sublime”, il suo prevalente carattere lirico e oratorio, l’aulicità che conserva nella sintassi e nel lessico, la rendono poco adeguata, come già osservava De Sanctis, sia all’analisi e alla rappresentazione della «vita reale» nella sua «pienezza e varietà» - e dunque a una narrazione di tipo realistico come quella a cui tenderanno i grandi scrittori europei del periodo romantico – sia alla comunicazione con un pubblico più largamente “popolare”. [131]

Il tono generale della narrazione è anche in Stagnitti molto distante dal “vero” ricercato dai contemporanei catanesi: nessuna madre, neppure dell’800 si rivolgerebbe al figlio in tale tono:

Cos. Dio! Ma perché ci tieni chiuso l’animo tuo? E credi tu figlio mio che…se ti vedesse così tuo padre!... Perché non ti getti nelle braccia di tua madre? Ridammi la pace, la felicità, l’amor tuo. È tua madre che vuol l’amor tuo, te lo chiede…pregandoti. Promettici almeno… [132]

Per meglio comprendere le analogie e le differenze fra l’opera del Foscolo e quella dello Stagnitti è necessario però citare una terza opera che, soprattutto col Foscolo, ha ben delineati legami: I Dolori del giovane Werther di Goethe.

Foscolo stesso, inviando nel 1802 allo scrittore tedesco la prima parte del romanzo, nomina l’Ortis come « una mia operetta a cui forse dié origine il vostro Werther ». Egli però rivendica anche l’autonomia del proprio libro: «Ho dipinto me stesso, le mie passioni, e i miei tempi sotto il nome di un mio amico ammazzatosi a Padova. Non ho nessun merito nell’invenzione avendo tratto tutto dal vero».

In seguito Foscolo, urtato dalle accuse di plagio, nella lettera a J. S. Bartholdy del 29 settembre 1808, torna a sottolineare l’originalità dell’ Ortis ed in particolare:

-              il diverso carattere della passione amorosa, che nel Werther ha come oggetto una donna maritata e «rode tutte le potenze vitali del protagonista: nell’Ortis «ristora» invece l’eroe, «ardente di vendetta e di libertà» e «lo conforta a sostenere lo stato d’esilio e di solitudine»;

-              la diversa condizione spirituale di Werther e Jacopo: il primo «esce in iscena vagheggiando la felicità che il bel mattino della sua vita gli promettea», mentre Jacopo appare «sin dalle prime parole com’uomo che si crede d’avere vissuto ormai troppo»;

-              la differente trattazione del suicidio: Goethe intende «far compiangere e perdonare il suicidio quasi fatale malattia di certi mortali»; Foscolo « farlo stimare come unico rimedio di certi tempi», come «rimedio» cioè della delusione storica.

Elda Vestini di Stagnitti testimonia la conoscenza da parte dell’esordiente drammaturgo di entrambe i romanzi epistolari. Sono infatti riscontrabili caratteristiche parimenti desunte dall’autore sia da Foscolo che da Goethe:

1.           la passione amorosa ha come oggetto una ragazza già promessa sposa come le Teresa dell’Ortis , ma ad insidiarla non è una giovane di belle speranze bensì un uomo maturo senza scrupoli, il Cavaliere Quirino Valnieri. Quindi, se la figura femminile è assimilabile a quella dell’Ortis, la passione amorosa è più vicina a quella che « rode tutte le potenze vitali» descritta da Goethe.

Lo stesso Cavaliere, in una delle sue apparizioni più corpose all’interno dell’opera, esprime la sua posizione nei confronti della passione amorosa:

Val. Che si faccia… quando s’è travagliati da certe passioni… tutto inutile. Anche la scienza, rimane impotente di fronte a tali malori. Riesce vano ogni sforzo, ogni proponimento, ogni rimedio. Una sola idea vi signoreggia potentemente e vi abbatte. Quasi in ogni momento codesta idea affascina da principio la mente con tutte le dolcezze più care, più seducenti, poi, a poco a poco cangiasi nei più tetri colori e diviene detestabile, brutta, orrenda, spietata, inumana, cagionando nel cuore l’odio e nell’animo l’abbattimento. Anch’io un tempo inneggiai, con tutta la intensione della mente, alla beltà e all’amore di tutti i fantasmi di questo mondo.

[…]

Giu. Ma lei dovrebbe dimenticare affatto una donna…. Non degna di lei. E poi con certe donne, bisogna seguire la gran massima di don Giovani Tenorio: Un giorno per innamorare, un altro per ottenere, uno per abbandonare, due per sostituire e un’ora per dimenticare.

Val. L’amavo… Essa sola faceva sorgere in me tutti i piaceri più belli e più dolci che si possano imaginare. Essa mi abbandonò. D’allora in poi pensai seriamente a voler discacciare dalla mia mente un’idea che mi toglieva e mi toglie tutt’ora la pace. Feci tutto quello che potei, per poter esser eletto deputato al parlamento nazionale; sperando che in mezzo alla politica, avrei potuto obliare…. Mi costò parecchie migliaia di lire, e non ottenni che pochi voti.. Dopo tale insuccesso mi partî dalla mia Bari. Viaggiai mezza Europa, ma né gli spettacoli, ne tute le distrazioni possibili valsero a potermi fare provare un momento di contentezza vera. Venni qui, in Venezia or fa due anni: Venezia, la città bella, la città degli amori e degli incantesimi:

. . . . . in queste tue

Ospiti rive, dopo lunga guerra,

Trovò riposo un esule; . . .

Dunque, venni qui, in Venezia, colla speranza di poter sopportare alquanto il mio vivere. E sapete, Giuliano: da principio mi abbandonai agli abbracci di donne perdute. Io credeva che dall’indebolimento del corpo dovesse derivare lo affievolimento dello spirito: tutto al contrario. Un dì mi accorsi che una di queste donne toccava, con qualche diletto, il mio cuore. E provai della ore di contento, nel cominciare a credere all’amore e alla riabilitazione di una creatura disgraziata. Da quel dì io la volli vedere spessissimo. Una sera le osservai nel collo, due lividure a mo’ di piccioli semicerchi. Le domandai sulla provenienza: Un morso di una ubriaco, mi rispose ridendo cinicamente. Tuttavia le volli parlare affettuosamente, per riuscire a commuoverla, della sua condizione infame: ed essa in una sfrontata indolenza, a ridere di nuovo. L’abbandonai disprezzandola. Non me ne ero accorto che cercavo l’osso nel fico! – Frequentai giuochi d’azzardo, e vi lasciai gran parte del mio avere. Feci qualche volta il filantropo, ma, un sentimento d’invidia involontaria, mi cagionava un esasperamento nell’animo. Avete inteso?.... Adesso bevo l’absinthe; codesto liquore, spero cagionerà l’anestesia nel mio cervello; potrebbe anche produrmi l’apoplessia fulminante. Viva l’absinthe! [133]

La citazione esprime la concezione dell’amore del Cavaliere: non è difficile immaginarla simile o uguale a quella dello Stagnitti stesso. Oltre questo traspare, innegabile, la conoscenza della grande stagione poetica francese di Paul Verlaine, Stéphane Mallarmè, Arthur Rimbaud, alla quale fa capo Charles Baudelaire. Il morso dell’ubriaco, è quanto di più “crudo” e “scandaloso” Stagnitti riesca ad esprimere in risposta all’orrore delle immagini Baudelairiane:

Avanzo all’attacco, e mi arrampico all’assalto,

come uno stuolo di vermi su un cadavere,

e amo tutto, crudele belva implacabile!

Perfino il gelo attraverso cui mi sembri più bella! [134]

Anche l’atto di affogare i dispiaceri e le frustrazioni nell’alcool è tipico delle vicende biografiche dei poeti maledetti, celebri anche per l’abuso, inteso come “illuminante”, che estende cioè  il campo dei sensi, delle droghe, tra cui l’oppio, il laudano e, soprattutto l’assenzio, “l’absinthe” citato dallo Stagnitti.

2.           La condizione spirituale del Cavaliere Valnieri non è approfondita. Il  personaggio stesso è delineato in maniera molto sfocata: alla vicenda partecipa solo con battute quasi  monosillabiche, connotandosi solo dall’atto secondo in poi per la sua negatività.

3.           Il suicidio non è teorizzato da Stagnitti ma finisce per essere spesso l’epilogo di tutte le inquietudini amorose

4.           La delusione politica è presente anche in Stagnitti: il cavaliere ammette di essere frustrato per lo sfortunato epilogo delle elezioni alle quali si era candidato. La delusione politica di Foscolo non interessa invece una questione personale.

Diversamente dai loro personaggi, Foscolo e  Stagnitti non si suicidano, riescono invece  ad aggrapparsi alle proprie illusioni, come  l’amore, la poesia, la morte, la bellezza, naturalmente su un diversissimo livello artistico l’uno dall’altro.

 

Il secondo parallelismo riguarda il Verga di  Sulle lagune”.

Il terzo romanzo catanese non si discosta ancora dalla poetica tipica degli esordi:  già dal prologo Verga dichiara i due motivi centrali del testo, la patria e l’amore. Da questo momento in poi Verga e Stagnitti, si allontaneranno dalla tematica patriottica:

non si trattava più di un romanzo storico ma di una cronaca di vita contemporanea dove l’interesse per il «dramma intimo» prevaleva sulla tesi patriottica. Un punto di passaggio piuttosto significativo perché nelle prove che seguiranno, caduta la posticcia cornice risorgimentale, si avrà conferma delle più mature inclinazioni e attitudini dello scrittore emerse in Sulle lagune, anche se quest’opera non si distacca molto dalle precedenti per ragioni stilistiche. [135]

Sulle lagune è ambientato analogamente ad Elda nella Venezia risorgimentale dove la vicenda storica si intreccia con quella sentimentale;

l’amore fra i due giovani Giulia e Stefano descritto in Sulle lagune ha carattere quasi platonico. Giulia vive in casa di un vecchio, il Conte di Krenn, ma non vuole rivelare a Stefano a quale titolo essa si trovi lì. Ciò causa un duello tra il conte austriaco e Stefano, nel quale quest’ultimo  rimane ferito. L’inazione fisica di Stefano si tradurrà in un’inazione anche politica dalla quale il giovane non vede l’ora di liberarsi:

[…] io voglio uscire da questa penosa inazione, io voglio andare a combattere almeno di fronte questi nemici della mia patria nelle file dell’esercito italiano […] [136]

Giulia era in casa del conte, inizialmente come ospite, allo scopo di rimanere vicina a suo padre fatto prigioniero dagli austriaci. Durante la permanenza, il conte cerca più volte di convincere la giovane ragazza a sposarlo ma, esasperato dai suoi continui rifiuti, la getta  in strada insieme alla mamma paralitica che prima aveva caritatevolmente ospitato.

Giulia non sapendo cosa fare si recherà dal suo amato ferito e decide finalmente di raccontargli la sua storia e di chiarirgli  la sua posizione in casa di Krenn.

Intanto il conte inizia a perseguitarla, ma Giulia, costretta a scappare, mantiene stretti contatti epistolari con Stefano, fino a quando i due si ricongiungeranno per sparire insieme su una gondola nessuno più seppe dove vittime del “giogo austriaco”.

 

Compare nel romanzo verghiano e nell’opera dello Stagnitti  la figura della mantenuta sulla quale entrambe torneranno più volte, mutuata probabilmente dal grande successo ottenuto in Francia dal più grande di Alexander Dumas figlio: La Signora della Camelie, romanzo del 1848.

Come già detto, le donne descritte da Stagnitti  hanno molto probabilmente caratteristiche simili a quelle delle donne che conobbe realmente, come accadde anche a Dumas, la cui conoscenza di Marie Duplessis fu una ispirazione per il suo romanzo.

Per l’epoca in cui fu scritto, La Signora della Camelie affronta un tema scandaloso. È stato infatti oggetto di critiche e interpretazioni diverse ed ha suscitato lo sdegno dei benpensanti, ma ha anche commosso migliaia di lettori nel mondo. È la storia dell’infelice amore tra Margherita Gautier ed Armando Duval, appartenenti a due mondi diversi. Lei è infatti la Mantenuta , abituata a vivere nel lusso, a indossare abiti sontuosi, a essere circondata di gioielli preziosissimi, tormentata da una malattia che rifiuta e combatte, la tisi. Margherita gioisce libera e capricciosa, dandosi agli amanti più ricchi e appassionati e ridendo di chi parla d’amore. Egli è il giovane di buona famiglia che si sente in colpa nei confronti dei suoi genitori e della stessa Margherita per averla, in qualche circostanza, umiliata e fraintesa.

Dumas, sia padre che figlio, sono alcune fra le letture giovani predilette da Verga e probabilmente anche da Stagnitti, che importarono in Italia questa tematica così scabrosa. Con Una Peccatrice, il romanzo che ha per protagonista la Mantenuta , si apre la stagione artistica “matura”, “mondana” di Verga.

In Una Peccatrice, ambientato a Catania, il giovane Pietro Brusio riesce, attraverso il successo nell’arte, a farsi notare da una donna fino ad allora vanamente desiderata. Narcisa è la donna bellissima che Pietro ha seguito per i viali respirandone il profumo, sotto il cui balcone  ha stazionato per interminabili ore, sognando che lei gli rivolgesse almeno uno sguardo. Una volta possedutala però Pietro se ne stanca presto fino a determinarne la morte. La materia amorosa, anzichè quella patriottica, è qui vista come termine estremo capace di regolare e governare la vita interiore dell’uomo, in grado di esigere una fede incrollabile e una dedizione assoluta, come nel caso di Narcisa (la “peccatrice” del titolo), la quale giunge fino al suicidio per riaffermare il primato dei propri affetti sulle altre voci della coscienza.

 

FLORIANA, raccolta di novelle

 

È una  raccolta di novelle ormai introvabile, pubblicata a Catania dalla  Tipografia Tropea, prima del 1897. Ne conosciamo l’esistenza solo grazie alle bibliografie. Quasi certamente neppure Santo Calì ne vide mai una copia, lo testimoniano l’assenza dei riferimenti alla trama e la brevissima menzione in Bibliografia di autori linguaglossesi dal 1600 ad oggi [137] perchè per tutte le altre opere il Calì espone brevemente la trama o riporta citazioni dal testo.

È probabile che Stagnitti  abbia deciso di accostarsi al genere novellistico in concomitanza con quanto era accaduto o stava accadendo nel panorama letterario italiano e catanese in particolre: dagli anni ’70 agli anni 90 del 1800, è l’esplosione del genere novellistico siciliano:

-       prima del 1869, data del primo rientro di Capuana a Mineo, è la novella Il Dottor Cymbalus

-       1874, Verga pubblica Nedda, la sua prima novella, dopo una breve stagione di romanzi;

-       1877, Capuana pubblica a Milano dall’editore Brigola la raccolta di novelle Profili di donne;

-       1880, è pubblicata presso il prestigioso Treves di Milano la più corposa raccolta di novelle di tutta la stagione verista, Vita dei Campi di Giovanni Verga,  scritte fra il 1878 e il 1880;

-       1888 è la volta dell’esordio novellistico di De Roberto con la raccolta Documenti umani;

-       1890, ancora De Roberto pubblica una raccolta di novelline: sono i Processi Verbali; 

-       1894 - 1898, Capuana nel suo nuovo ritiro a Mineo lavora accanitamente a nuove novelle, Le paesane (1894) e Le nuove paesane (1898), alcune delle opere di maggior successo dello scrittore.

Alla grande stagione novellistica catanese, quindi, Stagnitti risponde con un’opera che quasi sicuramente non doveva discostarsi troppo da quella linea.

Dal titolo, unico dato a nostra disposizione, possiamo azzardare un evidente parallelismo con le opere  del Verga ma soprattutto del Capuana.

Tutte e sei le novelle che costituiscono Profili di donne di Capuana sono emblematicamente intitolate con ricercati nomi di donna (Delfina, Giulia, Fasma, Ebe, Iela, Cecilia). Si tratta di una raccolta omogenea dal punto di vista strutturale, tematico che e linguistico: svolgono tutte, infatti, un tema sentimentale-mondano narrato in forma autobiografica da un io narrante maschile in un linguaggio ancora provvisoriamente immaturo. La caratterizzazione femminile del primo Capuana è molto simile a quella di Stagnitti: un «femminismo», quello capuaniano, che per quanto possa sembrare rivoluzionario e moderno resta pur sempre fermo alla concezione della donna come essere «inferiore», dotata e guidata più dalla passione che dalla ragione. [138]

Sono “profili” femminili quelli tracciati da Capuana e di Stagnitti, che appartengono a quel filone della narrativa ottocentesca dell’esaltazione dell’eroina femminile, con ambientazioni medio-alto-borghesi e salottiere, della predilezione per le tematiche galanti e mondane  in cui il fulcro del racconto è costituito da superficiali intrighi amorosi, stucchevoli passioni, patetiche schermaglie sentimentali… Appartengono a questo filone molte opere della letteratura soprattutto francese, dalle opere di Dumas figlio (lo stesso Stagnitti cita più volte La Signora delle Camelie), al De lamour di Stendhal al bovarismo di ascendenza flaubertiana. Proprio dal Dumas è ispirata la prima novella di Capuana che risale al periodo fiorentino: Il Dottor Cymbalus,  Ma mentre Capuana tra tutti gli autori citati accentuerà il momento psicologico, lo scavo interiore, in Stagnitti, tutte le caratterizzazioni dei personaggi rimangono sospese al massimo alla  descrizione fisica e a quella dello stato sociale. Per Capuana grazie alle novelle inizia l’interesse per la poetica naturalistica e ciò contribuisce alla formulazione dell’etichetta di ‘campione del verismo italiano’ della quale egli cercò sempre di liberarsi, mentre per Stagnitti assistiamo ad una netta cesura fra l’autore di teatro e quello di prosa.

Possiamo distinguere quindi fra lo Stagnitti del ‘prima delle novelle’ e lo Stagnitti del ‘ dopo le novelle’: è come se ad un certo punto il nostro autore abbia sentito irrefrenabile il richiamo della contemporaneità letteraria dalla quale non poteva più sottrarsi. Decide quindi di tentare l’esperimento ma l’autore del dopo-novella non è più lo stesso.: avvicinarsi alla novellistica in Sicilia alla fine dell’800 significa non poter prescindere dal verismo.

 

LE FIDANZATE, romanzo

Romanzo in sedici capitoli del 1897. Tutto comincia con un incidente : un calesse ha investito una signora celermente soccorsa da un giovane medico, Alberto Cajo. La donna investita è accompagnata dalla giovane figlia Regina, la quale dopo il pronto soccorso, comunica al dottore il proprio indirizzo invitandolo a raggiungerle per ulteriori controlli alla madre.

Nel secondo capitolo si interrompe la precedente narrazione e la nuova ambientazione è quella del salotto borghese di casa Vanti, dove fra giochi di carte e chiacchierate femminili si ritrovano le varie famiglie aristocratiche fra cui i signori Fernardi e i signori Cajo. Fra le  conversazioni di casa Vanti si sviluppa, seppur non approfondita, quella attualissima sulla nazionalità di Shakespeare, ed una accennata riflessione sulla natura del matrimonio che lo Stagnitti distingue lapidariamente in d’amore e d’interesse .

Il dottore Cajo si reca come promesso a casa della paziente : lo Stagnitti non tralascia i particolari relativi alla geografia del percorso del dottore che tuttavia rimane non identificabile. Durante la visita all’ammalata esplode l’interesse del dottore per la giovane Regina Telzi. Lo scrittore si sofferma in una lunga descrizione della signorina Regina e delle emozioni che la sua audace giovinezza provoca nel dottor Cajo. Gli stessi pensieri coinvolgono Regina che è tuttavia consapevole della impossibilità per una ragazza di modesto rango di ambire ad un così fortunato matrimonio.

Le visite del dottore in casa Telzi si fanno sempre più frequenti tanto da scatenare i dubbi e le malelingue del vicinato.

Ma Alberto e Regina, troppo giovani per razionalizzare il loro sentimento decidono privatamente di fidanzarsi, iniziando a frequentarsi molto spesso: si scambiano mille promesse per l’avvenire e Alberto si propone di sposarla non appena superato l’imminente concorso per professore di anatomia a Roma. L’esito felice del concorso fa sperare a Regina il prossimo coronamento del suo sogno ma quando corre alla stazione per rivederlo di ritorno da Roma, dopo aver oltretutto litigato con la madre che riteneva sconveniente quella uscita, Alberto si allontana, noncurante di lei, insieme ad un anziano signore.

Giunto in casa insieme al padre, Alberto trova ad attenderlo la famiglia Vanti al completo e, dopo una noiosa conversazione, non vede l’ora di correre dalla sua Regina che lo sta attendendo ansiosa. I due decidono di passeggiare verso il mare, parlando dell’amore e riflettendo sulle tante realtà del sentimento.

Intanto in casa Cajo, all’insaputa di Alberto, si combina il matrimonio fra il giovane medico e la figlia dei Vanti, sua cugina. Alberto apprende solo a cose fatte della decisione delle due famiglie e cerca invano di convincere i propri genitori che egli non sposerà la Vanti   ma che ha già promesso il suo amore a Regina. Il padre non approva la sua decisione e tenta di metterlo in guardia da possibili interessi della sconosciuta signorina. Infine Alberto vinto dalla pietà per i genitori e mosso dallo spirito di sacrificio promette che dimenticherà Regina.

Ben presto Alberto, grazie alla vicinanza della signorina Vanti nella città dove si è  trasferito per l’insegnamento, finirà per dimenticare Regina che, intanto, continua a scrivergli in preda allo sconforto più profondo.

La povera Regina viene a conoscenza dell’imminente matrimonio di Alberto con una ricca giovane: tale nuova invece di gettarla nell’estrema disperazione le fa subito venire in mente un’idea, potentemente viva: sperò vendicarsi. [139]

Regina esce per comprare un’arma ma si rende conto che a quell’ora non avrebbe trovato nessuna armeria aperta: allora decide di optare per una spezieria dove chiede dell’acido solforico, ma lo speziale, temendo un futuro tradimento rifiuta di vendergliene. Infine Regina, sconvolta e frustrata, chiede al cocchiere di accompagnarla alla stazione e da lì partirà da sola, per una meta sconosciuta e per una nuova vita.

La vita coniugale di Alberto Cajo ed Elminia Vanti procede senza intoppi, fino a quando, un giorno, il dottore si imbatte casualmente in alcuni bigliettini di un presunto amante della moglie. Dopo aver tentato di uccidere Elmina, accecato dall’ira, Alberto resterà solo.

Poco tempo dopo, durante una serata a teatro, l’ormai affermato medico riconosce in una cantante dalle sembianze molto familiari  la sua amata Regina.

Alberto decide di scriverle un biglietto  e Regina, incredula, vuole incontrarlo: l’amore di un tempo, non ancora sopito, riesplode con tutta la sua passione repressa.

Tre o quattro mesi dopo, Regina si ritrova per lavoro nella città del dott. Cajo: qui si ammala gravemente e muore in ospedale subito dopo aver mandato a chiamare il suo amore giovanile.

Anche Alberto, sconvolto cade in un grande languore ammalandosi.

Come di solito nelle opere dello Stagnitti, anche questa si conclude con una riflessione che ne racchiude il senso generale: il dottore, ormai rimessosi dalla sua breve malattia d’amore, si ritrova a riflettere con la sorella sul fatto che il bene e la felicità nella vita possono essere raggiunti ma non è che per un solo istante [140] .

Analisi critica dell’ opera

Con ‘Le fidanzate’ nel 1897  Stagnitti, già quarantunenne, si cimenta in un genere per lui nuovo: il romanzo. Tutto è pervaso dalla commovente e patetica analisi del tema dell’Amore.

Lo Stagnitti esordisce sottolineando questa sua scelta tematica già nella copertina, con una colta citazione dantesca

O voi, che per la via di amor passate

Attendete, e guardate.

DANTE – Vita nuova

Le citazioni, dirette o indirette, nel romanzo si susseguono fitte a partire dalla prefazione [141] . Sono probabilmente il frutto dell’intensa attività di lettore che fino a quel momento aveva interessato lo scrittore. Le sue letture, e qui ne abbiamo la certezza, non si limitavano ai classici dell’antichità.

Lo Stagnitti si apre ai movimenti e ai letterati contemporanei e a loro guarda attivamente, facendoli propri, comparandoli e, talvolta, anche criticandoli. È quello che si propone nella prefazione di questo romanzo, sicuramente la più interessante delle sue. In essa, densissima di spunti, Stagnitti si sofferma a parlare di Essenza del Bello, di Metodi, di Vero,condensando in poche righe i movimenti  letterari che intanto interessavano mezza Europa.

Egli parla  della  necessità  di  seguire  un  metodo  che  serva  a  condurre   a perfezione  un’ opera d’arte [142] , affermando poi che i metodi sono molteplici e variano con i tempo e con i luoghi e asserendo la certezza della relatività: non esiste un metodo migliore o giusto secondo l’autore. È consapevole però dell’attualità del ‘metodo’ verista, a suo giudizio male interpretato e bruttamente adoperato [143] .

Il suo scetticismo a proposito del verismo stà nella non corrispondenza fra bello e vero, che probabilmente Stagnitti cercava, quasi a voler sintetizzare Verismo ed Estetismo, in una unica essenza. Sostiene tuttavia la necessità da parte del letterato di saper scegliere quel solo vero che abbia uno splendore puro ed incontrastato [144] , e afferma quindi di aver realizzato il suo proposito in questo romanzo.

Protagonisti in contrasto, come uno pseudo-verismo ed uno pseudo-estetismo sono il Dio dell’oro e il Dio dell’amore. Il Dio dell’amore sarà destinato irrimediabilmente a soccombere ma, questa vittoria è causa d’irreparabili disavventure [145] .

 

Rapporti con altri autori

È prevedibile che un romanzo breve come Le Fidanzate possa intrattenere rapporti intertestuali con opere letterarie precedenti o coeve come The picture of Dorian Gray di Oscar Wilde, ma di certo non si azzarderebbe facilmente un parallelismo con l’opera di un illustre personaggio della letteratura italiana contemporanea quale Alberto Moravia.

Wilde è quasi coetaneo del nostro scrittore  (1854 – 1900)  ed è probabile che egli sia entrato in contatto con l’opera del maggior esponente dell’estetismo inglese.

The picture of Dorian Gray (1891)  precede di soli cinque anni la pubblicazione di Le Fidanzate e ciò che maggiormente le accomuna è la prefazione e l’esemplificazione molto simile di alcuni concetti.

Wilde puntualizza semplicemente ad apertura della Prefazione che

L’artista è il creatore di cose belle [146] ,

mentre nelle sua Prefazione Stagnitti afferma che

Per ben condurre a perfezione un’opera d’arte […] è necessario seguire un metodo, che sia guida sicura nello scoprimento e nella dimostrazione dell’essenza del bello [147] .

Afferma anch’egli sostanzialmente che l’artista non può essere altro se non colui che crea cose belle.

E più avanti:

Nessun artista ha intenti morali. L’intento morale dell’artista è un imperdonabile manierismo di stile. [148]

Risponde Stagnitti:

Bisogna adunque […] sapere scegliere quel solo vero che abbia uno splendore puro ed incontrastato. [149]

L’intento di entrambe quindi è di dilettare alla luce del bello puro e universale, teorizzato dall’estetismo in aperta polemica, espressamente per quanto riguarda Stagnitti, con quanti desiderano ricercare il bello nel vero. Il reale quindi può essere anche falsato, distorto e ciò non ha nulla di biasimabile in quanto l’ideale da servire è quello dell’arte, che richiede necessariamente di esplicarsi attraverso il bello, senza ricorrere a mezze misure.

Mentre però Wilde procede quasi con ostentata spavalderia, Stagnitti si sofferma autocriticamente  a chiedersi se il suo sarà poi un buon racconto [150] .

Se in questo caso non possiamo sapere con certezza se Stagnitti fosse realmente entrato in contatto con l’opera del dandy londinese, possiamo asserire con certezza che non ha potuto conoscere Gli Indifferenti di Alberto Moravia, di nove anni posteriore alla sua morte.

Eppure, un passaggio del romanzo moraviano sembra ricalcare passo passo un analogo passo del romanzo analizzato.

Si tratta per Stagnitti del passaggio in cui Regina viene a sapere del tradimento dell’amato e del suo imminente matrimonio con una ragazza benestante e medita di ucciderlo; per Moravia, del tratto di romanzo in cui Michele, fratello di Carla e figlio di Mariagrazia, medita di reagire finalmente alle angherie ed ai tradimenti dello spudorato Leo Merumeci che gli ha insidiato madre e sorella.

Regina e Michele sono i personaggi traditi dalle persone che più amano, coinvolti in un gioco più grande di loro, che in un impeto di coraggio si liberano dalle catene del proprio immobilismo e decidono di reagire.

È importante sottolineare che in entrambi i romanzi la causa scatenante, l’elemento decisivo che porta al tradimento è, come lo chiama Stagnitti il Dio Denaro [151] . Senza squallide  motivazioni economiche latenti, madre e sorella di Michele non si sarebbero fatte sedurre dal benestante Leo, né i genitori del dott. Cajo avrebbero contestato il matrimonio del figlio con una ragazza di estrazione sociale inferiore rispetto alla loro.

Sia Michele che Regina immaginano la scena dell’omicidio, l’attimo in cui si libereranno finalmente del peso che li opprime.

Regina viene finalmente a conoscenza delle imminenti nozze fra il dott. Cajo e sua cugina e

Tale nuova, invece di gettarla nell’estrema disperazione, le fé subito venire in mente un’idea, potentemente viva: sperò vedicarsi.

[…]

La sera in cui si sarebbero celebrate le nozze di Alberto con la signorina Vanti, Regina indossando il migliore de’ suoi abiti e con uno scialle in sul capo, sarebbe uscita nascostamente di casa. Per via, avrebbe comprata una rivoltella; quindi si sarebbe incamminata verso piazza Azeglio: in un angolo della quale sorgeva il palazzo Vanti. Giunta costì, colla rivoltella spianata e nascosta sotto lo scialle , dal portinaio di casa Vanti  avrebbe fatto dire ad Alberto che un suo amico intimo di cui ella conosceva il nome, avrebbe desiderato urgentemente  dirgli una parola nell’androne del palazzo. E  allora quando il professore le sarebbe stato dinanzi, ella lo avrebbe freddato sparandogli a bruciapelo. [152]

Mentre anche a Michele

… gli pareva di vedere come sarebbe avvenuto tutto questo: avrebbe salito quella scala, sarebbe entrato in quel salotto; atteso con l’arma in mano; finalmente Leo: “Cosa c’è Michele?” avrebbe domandato. “Ecco cosa c’è” egli avrebbe risposto, e subito avrebbe sparato; [153]

Quindi Regina

Allorché fu in istrada, […] si avviò verso il Corso. Poi che lungo il Corso ella avea visto tante volte de’ magazzini d’arme.

Trovò chiuso il primo magazzino d’arme. Ed ella per accertarsi di non avere sbagliato, alzò il capo, e lesse in una grande insegna: Armeria.

Ella già avea percorso le strade principali, andando in cerca d’un’armeria. Ma in quell’ora i magazzini d’arme erano chiusi.

- Come fare? - [154]

Così Michele si avvia per

la strada modesta e secondaria; vi si vedevano or qua or la delle piccole botteghe, dalle vetrine miserabili, […] la vetrina era dalla sua parte, poi veniva la porta. Prima non capì che bottega fosse: il lustro del vetro, di sbieco, confondeva gli oggetti, ancor un passo: allora gli apparvero “armeria” scritto in lettere bianche, e, sopra un fondo marrone una rastrelliera di fucili da caccia. E qui ci compro una rivoltella pensò; ma non tirò innanzi; davanti alla porta esitò, fece una giravolta ed entrò. [155]

 

Infine né Regina né Michele riusciranno nel loro intento omicida, la prima perché non troverà nessuno disposto a venderle ciò che cerca, il secondo per l’innaturale indifferente immobilità che lo pervade.

 

LA VITA E ’ DIVINA, romanzo

Romanzo in venti capitoli del 1907.

 È la storia di Claudio Celti, giovane liceale che viene convinto dalla madre a spostarsi in una nuova città dove potrà concludere i suoi studi grazie ad una piccola somma lasciatagli dal padre morto.

Nella nuova località che l’autore definisce C***, Claudio concluderà brillantemente i suoi studi di giurisprudenza. Durante la sua permanenza in città stringerà amicizia con l’anziano colonnello Ottoboni, vecchio amico di suo padre. Il colonnello, di età avanzata e tormentato dalla gotta, diverrà il più fidato confidente di Claudio e i due si ritroveranno spesso a chiacchierare degli argomenti più svariati. In uno dei vari incontri, l’Ottoboni si lamenta del fatto che mai nessuno abbia scritto una storia dell’eroico risorgimento italiano e, avendolo vissuto in prima persona, si propone di farlo.

Claudio è descritto come un giovane di bella presenza: snello, diritto, baffetti all’in sù, grande attenzione nell’abbigliamento, i lineamenti del volto fortemente maschi e gli occhi neri pieni di fuoco [156] , nonché di grande successo con le donne.

Al termine degli studi, il giovane avvocato vuole intraprendere la sua attività lavorativa e si arrovella quindi nel tentativo di farsi conoscere per acquisire un buon numero di clienti. Una sera, mentre insonne si aggira pensieroso per la città, si imbatte in un amico che, essendo l’ultima serata del carnevale, lo invita ad una festa.

Al ballo Claudio conosce casualmente un elegante Pierrot. Si tratta della signorina Ersilia Gemmati, bellissima bionda dall’esistenza travagliata,  con la quale, Claudio intreccia una fitta relazione amorosa. Ersilia gli racconta di essere un’orfana imbattutasi dapprima in una compagnia teatrale e quindi in un vecchio gentiluomo senza scrupoli che ne ha fatta una mantenuta.

È proprio Ersilia ad aiutare Claudio nel pubblicizzare il suo studio. Lo presenta inoltre al commendatore Orazio Tornoni. Grazie a questa amicizia, Claudio entra a far parte di un circolo politico ed è  eletto segretario.

Il commendatore lo introduce anche in casa propria, dove inevitabilmente Claudio intreccia una relazione amorosa parallela con la signorina Tornoni.

Combattuto dall’amore per la due donne, Claudio finirà per scegliere la figlia del commendatore, ma Ersilia, che sa già tutto, cercherà di infangare il nome della signorina Sabinetta. Claudio quindi decide di lasciarle entrambi ma proprio in casa dell’amico Ottoboni viene a conoscenza del suicidio in mare della sua amata Ersilia.

Sconfitto e frustrato, l’avvocato decide di seguire la sua amata nel gesto estremo, avvelenandosi.

Analisi critica dell’ opera

Nel suo ultimo romanzo Stagnitti condensa i ‘leitmotiv’ essenziali del suo viaggio di autore di teatro e di romanzo, nella ricerca di un’ideale punto di approdo.

Come nel primo romanzo è presente, un’interessante Prefazione.

Già le rivisitazioni intertestuali sono chiaramente  indicative di una netta virata dello spirito critico del nostro autore verso la speculazione filosofica.

 Stagnitti esordisce con una battuta che potrebbe benissimo essere di chiusura anzicchè fungere da apertura, puntualizzando che

 Ogni uomo che sente a pieno la propria essenza, è mosso con volontà irresistibile alla ricerca d’un vero che esplichi in qualche modo il fenomeno del proprio io. [157]

Prosegue quindi con una rassegna di quanti hanno ricercato la verità indiscutibile sulla natura del piacere e del dolore, citando Sisifo, Herbert Spencer, Talete, Teuto, Volta e a conclusione l’imperatore filosofo Marco Aurelio  nel suo domandarsi:

«Ho io compiuto qualche atto utile alla società? Dunque ho giovato anche a me stesso. Abbi sempre presente questo pensiero e non desistere mai» [158] .

Oltre ai temi cardine della poetica dello Stagnitti, ne troviamo qui di nuovi o di semplicemente rivisitati dalla maturità di un autore che scrive ormai da più di vent’anni e che ha intanto proseguito la sua attività di lettore.

È particolarmente presente lungo tutto il romanzo il tema dell’Abbandono. Claudio, il protagonista, si ritrova abbandonato più volte dalle persone che più ama: in apertura di romanzo dal padre già morto, quindi dalla madre che lo invita a trasferirsi in una nuova città, e nel finale, è viene abbandonato dalla signorina che ha amato. Infine, Claudio stesso sceglie di abbandonare la vita, seppur divina, suicidandosi.

Da segnalare anche, oltre all’uso mai sperimentato nelle precedenti opere delle corrispondenze epistolari, la delineazione più netta di quelle figure politico-patriottiche che pervadono gran parte dell’opera dello Stagnitti.

È quindi individuabile nell’Ottoboni il prototipo dell’amico patriota, mentre personaggi quali il Tornoni o il duca D’Irzo sono le figure che incarnano l’ambiente politico e le sue corruzioni.

Anche l’immancabile tematica amorosa subisce qui una leggera virata che fotografa la situazione di un uomo ormai maturo, già disilluso nei confronti della vita e dell’amore e che si impegna ad analizzare lucidamente le ragioni del sentimento e il suo per niente poetico piegarsi al fascino delle corruzioni.

Il Claudio de La Vita è Divina non è il Dott. Cajo de Le Fidanzate, non si batte contro un destino che lo vuole uomo di una donna che non ama: è egli stesso che si era messo in animo da tanto tempo di distrigarsi totalmente dalla sua pratica amorosa con la Ersilia   […] per posporla subitamente a un’altra donna. [159]

Sembrano parole inimmaginabili in bocca ai precedenti nobilissimi personaggi dello Stagnitti che mai avrebbero abbandonato una donna per puro calcolo.

Eppure Claudio lo fa, è l’uomo finalmente “reale”, “vinto” dallo spietato evolversi dei fatti della vita, che si lascia trascinare dall’interesse, dalla speculazione, ma che, irrimediabilmente, finisce per essere vittima dei suoi stessi cattivi propositi.

Stagnitti  vuole vestire in questo romanzo i panni dell’uomo cinico che certamente non fu mai, ma che spesso avrebbe voluto essere.

Combattuto fra l’ideale di un’arte bella, che aveva teorizzato molto prima e la tendenza coeva ad un arte vera, Stagnitti sancisce lucidamente il fallimento di entrambe le soluzioni:

l’arte non può essere vera perchè non sarebbe bella, così come l’arte non può essere bella perché non sarebbe vera.

Il personaggio ideale descritto dallo Stagnitti attraverso le sue opere, muore definitivamente col nome di Claudio ne La Vita è Divina.

Anche la conclusione del romanzo come sempre enfatica e risolutiva, viene qui affidata ad un personaggio secondario, il colonnello Ottoboni, il quale contemplando la morte del suo giovane amico sentenzia:

-              La vita è la manifestazione conscia di Dio.

La vita è divina, e pure la è spesso costretta a dibattersi, e qualche volta disperatamente, tra la menzogna e la viltà! [160]

 

Rapporti con altri autori

Nulla di nuovo in merito ai riferimenti letterari per  questa opera che segna la fine della carriera di romanziere dello scrittore linguaglossese.

Stagnitti ritorna nuovamente al Verga de Le Lagune, in particolare nella scena, presente in entrambe i romanzi, del ballo in maschera.  Il personaggio di Stagnitti si imbatte in un elegante Pierrot che gli stava vicin vicino [161] , mentre il personaggio Verghiano si accorge che […] ecco là, dietro quella quadriglia una graziosa mascherina, che col suo ricco dominò di velluto nero sembra troppo trista per una festa sì allegra. [162] .

Altro riferimento, non nuovo per  Stagnitti è al Dumas figlio de La Signora delle Camelie. Come Margherita, anche Ersilia è una mantenuta dalla triste storia.

Squisitamente letteraria è invece la trovata di Stagnitti di far entrare in confidenza l’avvocato Celti con la signorina Tornoni attraverso la letteratura. Cadono nelle grinfie dell’amore spinti dalla letteratura i cognati Paolo e Francesca, e cadranno allo stesso modo due personaggi del Candido sciasciano: Candido non si era accorto di Paola, la governante del nonno

[…] fino a quel pomeriggio d’estate in cui, mentre leggeva Marx, ne vide sulla pagina gli occhi grigio-azzurri […]. Chiuse il libro, si alzo, uscì di casa; e andò, che non ci metteva piedi da mesi, a casa di suo nonno: […]. [163] . Anche l’avvocato Celti e Sabinetta entreranno in contatto attraverso la letteratura: L’Avvocato Celti, stando seduto a canto a un tavolino, era rimasto solo nel salotto. Poco dopo, rientrò nel salotto la Sabinetta con in mano un foglio di carta e il calamaio. […] -  Adunque lei, avvocato, mi farà il favore che io le chiedo? – Da parte mia, mi reputerò fortunatissimo se la potrò ben servire. Dica, signorina. – Ecco. Ogni tanto per mio semplice diletto, mi son messa a scrivere qualche novelletta. Ora io vorrei dargliene a leggere qualcheduna; con la preghiera però, di correggermela in tutto ciò che riguarda la grammatica e specialmente lo stile. […]. [164]

Da questo episodio in poi, i rapporti fra i due si faranno sempre più fitti fino al punto in cui  il giovane avvocato sarà costretto a scegliere fra le due fidanzate.

 

ELEVAZIONE

Al di sopra degli stagni, al di sopra della valli,

delle montagne, dei boschi, delle nuvole e dei mari,

al di là del sole, al di là dell’etere

al di là dei confini della sfere stellate,

 

tu mio spirito, ti muovi agilmente,

e, come un buon nuotatore, che si sollazza tra le onde,

dividi gaiamente la profonda immensità

con virile ed indicibile voluttà.

 

Scappa lontano da questi miasmi morbosi:

va a purificarti nell’aria superiore,

e bevi come un liquore puro e divino

il fuoco chiaro che riempie gli spazi limpidi.

 

Dietro le difficoltà e i vasti affanni,

che opprimono col loro peso l’esistenza nebbiosa,

fortunato è colui che può dirigersi con ali vigorose,

verso campi sereni e luminosi;

 

colui che lascia andare, come allodole,

i suoi pensieri verso i cieli del mattino;

- colui che plana sulla vita e, capisce senza sforzi,

il linguaggio dei fiori e delle cose mute! [165]

Con l’opera di Baudelaire Stagnitti dovette sicuramente entrare in contatto. L’omonimia tra il sonetto del  poeta francese e l’opera del nostro scrittore può essere considerata la più calzante fra i riferimenti.

L’ultimo Stagnitti  esprime un gusto letterario decisamente decadente e quasi vojeuristico.

Elevazione è una lunga analisi sulla natura dello spirito umano, sulla necessità innata nell’uomo di elevarsi attraverso l’anima, lo spirito o il corpo, a seconda della credenze.

Mentre Baudelaire invita il suo spirito a fuggire lontano, ad estraniarsi dalla realtà, Stagnitti brama l’identificazione dell’uomo con Dio, il più alto fra i suoi prototipi:

È da tempo antichissimo che l’uomo brama la sua Elevazione; è da tempo antichissimo che l’Uomo cerca di abbattere e superare in sé  stesso, mediante una sintesi eccelsa, l’antagonismo delle forze; e poter così, tra una glorificazione eroica di azioni nobilissime, confondere, immedesimarsi consapevolmente con l’Anima infinita del tutto, con –  Dio!  [166]

Strutturalmente, Elevazione assume le forme di un’opera-saggio, suddivisa in paragrafi dal titolo esemplificativo: Del cammino  da seguire, Del perché si scrive, Dell’onore, Dell’uomo, Del corpo sociale, etc…

Dimostrando una buona conoscenza della storia della filosofia, in Elevazione Stagnitti affronta le tematiche più disparate. Iniziando dalla storia di Fra Lattanzio, coglie l’occasione per esprimere attraverso di lui parabole e racconti;  passa in rassegna le diverse religioni ; riflette sul dolore, sulla mitologia, sul pensiero greco, sulla grazia, sul Nirvana, sulla storia, su una miriade di altri concetti filosofici e non.

Anche un’anticipazione del concetto pirandelliano di maschera trova spazio nell’ultima opera di Stagnitti:

Qui è necessario andare sino in fondo – molto in fondo – e col microscopio della mente – oltre la maschera. –

[…]

Le moltitudini non vedono oltre l’apparenza – oltre la maschera ! - [167]

Ritorna più volte lungo il testo, come nella migliore tradizione estetico-decadente, il concetto di Bellezza:

Come regola generale si può credere sicuramente, che il mondo, l’universo – il Tutto – sia una Realtà che sorpassa e trascende la nostra immaginativa nella percezione di ogni bellezza, di ogni sublimità. [168]

 

- La bellezza ! – E non è quel tale sentimento d’ambizione che si manifesta tra l’avvilimento, i patimenti e la morte degli altri ? [169]

 

Ho salvato il mio cuore, e l’ho votato alla divinità della bellezza, dell’amore e della vita. [170]

 

CONCLUSIONI

 

La vicenda artistica di Nello Stagnitti è pienamente integrata, risultando quindi ascrivibile anche se in maniera che possiamo definire ‘alternativa’, nei generi e nei modi letterari di fine Ottocento e di inizio Novecento.

Uno dei periodi più fecondi dal punto di vista delle arti, un’epoca nella quale, l’arte è stata filtro ma soprattutto strumento preponderante, nell’espressione delle più disparate istanze sociali, politiche ed economiche.

Stagnitti, siciliano di provincia, seppur autore minore, attraversa e rispecchia  gli aspetti della letteratura e della società a lui coeve. Prevalentemente autodidatta, padroneggia gli stilemi di gran parte dei movimenti letterari europei: non è difficile identificare nei suoi scritti la ricerca illuministica dei diritti della coscienza individuale, della critica razionalistica, della ragione dell’individuo in quanto uomo, soprattutto, cittadino; il carattere lirico ed introspettivo di tanta letteratura francese di età napoleonica [171] ; il sobrio fervore del Romanticismo, un romanticismo che come nel caso del Foscolo possiamo definire “neoclassico”. Sono anche presenti, oltre all’orientamento storicistico tipico del primo romanticismo, aneliti estetizzanti  e le ‘nuove’ concezioni positivistiche con le quali pur di malavoglia Stagnitti si trova a dover fare i conti. Scrive in Le Fidanzate con irritato riferimento indiretto: c’è di molti, i quali credono che ogni vero possa rendere l’idea del bello. Ecco dove sta a punto l’errore. [172]

Stagnitti critica apertamente quello che oggi chiamasi verismo [173] in un modernissimo anelito di libertà, di rifiuto delle etichette, di imbrigliamento nei generi. Egli non riconosce che il suo metodo e quello che con misurato distacco definisce verismo, si propongono infatti entrambi come strumenti di analisi della realtà. Così nel  narrare la strenua lotta fra il Dio dell’amore e il Dio dell’oro [174] sceglie un tema veristico, ma si propone di trattarlo con intendimenti altamente e nobilmente estetici [175] .

Questo volersi liberare dalle etichette, corrisponde ad un inconscio desiderio di disimpegno e rispecchia pienamente quella che doveva essere la personalità dello scrittore: un uomo schivo, sensibile, di sani principi, desideroso di intimità ma al contempo ferreo nelle proprie scelte, irremovibile nelle decisioni. Probabilmente l’oblio in cui è stato relegato, è stato un oblio voluto, desiderato, nel tentativo di poter parlare liberamente di temi attuali senza interferenze o critiche di sorta.

Così come risulta difficile ascrivere Stagnitti in un determinato movimento letterario o in un genere, è altrettanto difficoltoso accostargli letterati o pensatori contemporanei, anche se a questi parallelismi il nostro autore non può sottrarsi per quanto riguarda la lingua. Originalità e differenze sono un tuttuno quando si parla di Stagnitti: è il periodo storico, e nient’altro che lo rende accostabile a Verga, Capuana,  De Roberto. Così, parallelamente, a Verga esordisce con opere di carattere patriottico, come per Capuana costante è la presenza nelle sue opere di figure femminili, e come quelli descritti da De Roberto i suoi personaggi inseguono un sogno destinato ad infrangersi contro gli ostacoli della vita.

Stagnitti non desiste dalla tematica patriottica come invece accade per Verga. Le riflessioni più preganti nell’ambito della sua opera riguardano proprio quest’aspetto che egli ritiene al pari degli altri, Sentimentale. Solo per la Patria o per l’Amore si giustificano le morti dei suoi personaggi, disposti a soccombere nobilmente.

Dicevamo della lingua, specchio al cui riflesso, diversamente da quanto fa per gli altri, l’autore non può sottrarsi. La lingua letteraria di Stagnitti è il solo aspetto della sua poetica che lo rende pienamente coevo ai generi e agli autori del suo tempo. Così nel teatro come nei romanzi sono individuabili i caratteri preponderanti di una prosa all’indomani dell’unità nazionale - che tale risulta solo dal punto di vista politico. Stagnitti, come i suoi contemporanei si industria per uniformare il proprio idioma all’italiano, ma sono forti gli influssi della paludata lingua letteraria, della tradizione del francese, e costante è l’ostentazione della lingua come marca culturale.

Ne 1868 si riunisce la commissione Broglio, decretando, grazie anche all’ intervento manzoniano, la supremazia della lingua fiorentina: l’idioma di Dante assurge ora a marca stilistica di quanti, nell’incertezza dilagante hanno trovato finalmente un modello a cui riferirsi. Se a livello popolare, per la diffusione del ‘nuovo italiano’ bisognerà ancora attendere un cinquantennio, i letterati si interessarono subito al cambiamento.

Le condizioni linguistiche di partenza  dei  letterati  siciliani, che vivevano  l’italiano  come  «una lingua seconda» [176] vanno pian piano uniformandosi sotto l’influsso di tre forze, sintetizzate da Pirandello: frammenti di lingua aulica; macchie locali; componenti francesizzanti. [177]

Può darsi che anche Stagnitti si sia recato a ‘sciacquar i panni in Arno’: è comunque innegabile la presenza massiccia di toscanismi non solo lessicali nelle sue opere. Costrutti come Ti ho detto le mille volte che io non sono un ciuco,  le son tutte grulleria, correvano all’impazzata tra il pigia pigia [178] non lasciano adito a dubbi. La sua lingua è coltissima, e oltre a ben camuffati dialettalismi, è ricca di piacevoli ricercatezze linguistiche. Ma come per i contemporanei, la sua lingua è ancora incerta, come dimostra l’altissima presenza di alternanze : colle / con le; avea / aveva; codesta / questa; ei / egli [179] .

Se, linguisticamente, Stagnitti è un letterato che appartiene al movimento verista, non lo è per quanto riguarda i contenuti. La sua prosa risulta assolutamente originale per la trattazione delle tematiche legate ai sentimenti. I suoi sono personaggi che vivono intensamente le emozioni della vita e per quelle sono disposti a lasciarsi vincere. Si muore per l’Amore o per la Patria nelle sue opere, in una ricerca di aneliti superiori sempre costante. L’idealismo insito nell’opera di Stagnitti è teorizzato, quasi giustificato, nell’ultima opera, Elevazione, summa poetica di un uomo che vuole esemplificare già dal titolo la sua profonda aspirazione.

Se Stagnitti fosse un moto, sarebbe un moto ascensionale, mentre il verismo nel suo rivolgersi agli umili, ai vinti, agli ultimi, potrebbe figurarsi come moto discendente. Questo movimenti però, percorrono strade parallele, che spesso si congiungono, si intersecano, si toccano per poi divergere.

In questo senso Stagnitti è l’alternativa al verismo e, per suo il  patetico incedere, sempre teso a catturare nuovi aneliti superiori, in uno strenuo tentativo di “elevazione”, oltre ad alternativa al verismo, la sua prosa, in un tentativo di codificazione tipico della nostra civiltà, può essere definita un’alternativa melodrammatica al verismo.

 

APPENDICE

Frontespizi originali delle opere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Rizzoli ( BUR ), Milano, 2003

 

Desidero ringraziare il Dott. Tonino Cavallaro che mi ha fornito Amata ed Elda Vestini;

 

il prof. Vincenzo La Guzza   per le sempre interessanti chiacchierate;

 

la signorina Rosa Stagnitti per le preziose informazioni, le notizie biografiche ed alcuni testi;

 

il dott. Federico Bianca per la pazienza e la fiducia;

 

tutti gli amici e le persone che mi vogliono bene per gli incoraggiamenti ed il sostegno,

 

i miei genitori, a conclusione di un percorso che senza di loro sarebbe stato molto più arduo.

 



[1] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, Milano, Remo Sandron, 1907, p. 157

[2] SANTO CALì, Le strade aspettano un nome, ed. Camene,1959. Pp. 128-131 « NELLO STAGNITTI – Nello (Mariano) Stagnitti nacque a Linguaglossa il 2 Lugnio 1856 da Francesco e da Concetta Castrogiovanni. A Linguaglossa frequentò le scuole elementari e nella biblioteca di famiglia, autodidatta, completò i suoi studi. Alla madre rimasta vedova ancor giovane, dedicò tutte le sue cure: per essa non lasciò mai il paese.

Carattere ciuso, condusse vita ritirata, alternando le letture dei classici antichi e moderni con i diletti della caccia.

Pensoso sempre del mistero della vita, il rinnovamento della società egli intese come elevazione: elevazione verso una bellezza suprema, un’armonia divina, una grandezza interminata; ed Elevazione è il titolo della sua ultima opera, ove il contrasto fra ragione e fede si affina al fuoco del nuovo verbo nietzschiano.

Esordì nel campo delle lettere con una commedia in tre atti, Amata, in ci una patetica storia d’amore ha per sfondo il clima romantico dell’epopea garibaldina. Ad Amata tra il 1885 e il 1897, seguirono una seconda commedia in cinque atti, Elda Vetrini, e una raccolta di novelle, Floriana. Nel 1897 pubblicò Le Fidanzate, un romanzo in cui il conflitto ardente, spietato, senza trega fra il Dio dell’amore e il Dio dell’oro, finisce col trionfo di quest’ultimo. L’opera venne pensata e scritta nell’ambiente nuovo del verismo, col quale lo Stagnitti entra in assennata polemica.

Ancora un romanzo pubblicava nel 1907, La Vita è divina, intorno al rinnovamento di tutti e dell’individuo: «ho io compiuto qualche atto utile alla società? – si chiede nella prefazione lo Stagnitti – dunque ho giovato anche a me stesso. Abbi sempre sempre presente questo pensiero e non desistere mai». Nel ricordo dell’Imperatore filosofo l’inquetudine dell’animo del Nostro trovava il suo sereno placamento.

Nello Stagnitti morì a Linguaglossa, a 64 anni, il 15 gennaio del 1920».

[3] «Tra la fine del secolo scorso e il principio del nuovo, visse, in pensosa solitudine, Nello Stagnitti, scrittore di drammi, l’Amata e l’Elda Vestrini, di novelle, Floriana, di romanzi, Le Fidanzate e La Vita è divina, e di opere, Elevazione, in cui l’occhio vigile dell’intelletto risale dall’abisso che tiene ancorati nelle sue tenebre i destini infiniti degli uomini».

[4] SANTO CALì,  DAL LIBER CAPITULORUM A I TIGLI DEL PARCO Bibliografia di autori linguaglossesi dal 1600 ad oggi Vol I, Edigraf Catania, 1964, pp. 29,30. « Si è lamentato, di recente, lo scarso interesse della critica ufficiale nei confronti di quel vasto e prezioso filone di letteratura in camicia rossa, che la ricorrenza del centenario della spedizione dei Mille aveva ultimamente riproposto all’attenzione della critica stessa, si noti però che la letteratura garibaldina non è solo quella dei Dandolo, degli Abba, dei Checchi, dei Bandi, dei Barril, dei Costa ma è anche quella del nostro Nicolosi, del nostro Stagnitti, di cento scrittori e di cento poeti, più omeno grandi, che affascinati dal mito di Garibaldi, ne sono stati ingenui e insieme infiammati assertori e divulgatori; […].Quell’epopea continua con i Canti Nazionali del Nicolosi, i Canti ribollono in un mare di magnanima retorica, s’erge al di sopra dei flutti l’immagine dell’angelo biondo, cioè di Garibaldi; continua ancora quell’epopea, con la Amata di Nello Stagnitti, che racconta l’amore infelice di due giovani, Silvio e Amata; Silvio muore combattendo nei pressi di Milazzo contro le truppe regie,muore anche Amata, di pena;Federico, un compagno di Silvio, è il triste nunzio della morte del fidanzato; conclude il dramma con queste parole: « Si, ma l’una è morta fra i dolcissimi ricordi di un puro amore; l’altro fra i sospirati canti di vittoria dei salvatori dalla patria nostra. Morta felice! ».

L’Amata fu pubblicata a Milano nel 1885, […].

[5] SANTO CALì, Le Strade aspettano un nome, op. cit., p. 128

[6] SANTO CALì, Il mio paese, Linguaglossa, tip. Ferrero, 1996, p. 4

[7] Ivi pp. 1-2

[8] Ivi, p. 4

[9] Cfr. ANTONINO CAVALLARO, LINGUAGROSSA ….LA SUA STORIA , Centro Graficatre s.n.c., Palermo, 1984, pp. 28 - 35

[10] SANTO CALì, Le strade aspettano un nome, op. cit. , p. 123. «Intanto proponiamo che: […] c) alla Via III Oberdan si dia la denominazione di via Nello Stagnitti»;

[11] LUCA CLERICI, Invito a conoscere il verismo, Mursia, Milano, 1989, p. 87

[12] NICCOLO’ RODOLICO, Il Risorgimento vive, S. F. Flaccovio Editore, Palermo, 1961, p. 63

[13] SANTO CALì , Bibliografia, op. cit. , p. 30

[14] NICCOLO’ RODOLICO, Il Risorgimento vive, op. cit., pp. 178 - 180

[15] Ivi, p. 322

[16] A. GRAMSCI, Il Risorgimento, Torino,  Einaudi, 1966, p. 24

[17] G.C. ABBA, “Da quarto al Volturno – Noterelle di uno dei mille”, in G. RODOLICO, Il Risorgimento Vive, op. cit.,  p. 175 - 180

[18] Nello stesso anno di Stagnitti, il 1856 nasce Freud il padre della psicoanalisi che molto avrebbe avuto da dire sugli sdoppiamenti del nostro nei suoi personaggi.

[19] M.ISNENGHI, L’unità Italiana in AA.VV..”Tesi, antitesi, romanticismo-futurismo”, Messina-Firenze, 1974, p. 33

[20] NICCOLO’ RODOLICO, Il Risorgimento vive, op. cit., p.327

[21] Ivi, p. 322-323

[22] GIACOMO LEOPARDI, Operette Morali, BUR, 2002, pp. 272 - 287

[23] Cfr.  ACHILLE TARTANO, Leopardi, in Letteratura italiana Laterza, ‘Le Operette del ‘24’, Roma – Bari, 1984, pp. 100- 138

[24] ARRIGO BOITO, A Giovanni  Camerana, in Tutti gli scritti, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1942, p. 62

[25] Cfr. UMBERTO BOSCO, Realismo romantico, S. Sciascia ed., Caltanissetta – Roma, 1967, pp. 11 – 78

                [26] CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici, vol. 2  ,Ed. Archimede, Milano, 2002,  p. 1301

[27] N. STAGNITTI, La vita è divina, op. cit. p 44

[28] Cfr. LUCA SERIANNI, Il secondo Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 15 - 29

[29] F. SABATINI, L’italiano, dalla letteratura alla nazione – linee di storia linguistica d’Italia, Firenze, presso l’Accademia della Crusca, 1997, p. 19

[30] C. MARAZZINI, La nuova lingua, in  LUCA SERIANNI –  PIETRO TRIFONE, in Storia della lingua italiana, vol.I, Einaudi, Torino, 1993, p. 320

[31] Ivi, p. 323

[32] V. COLETTI, Storia dell’italiano letterario,Einaudi, Torino, 2000, p. 274

[33] Fra questi possiamo elencare: Dizionario della lingua italiana  di Tommaseo e Bellini – V edizione del vocabolario della Crusca (rimasto incompiuto); Novo vocabolario di Giorgini e Broglio; Vocabolario della lingua parlata di Rigatini e Fanfani; Novo dizionario universale della lingua italiana di  Petrocchi.

[34] GIAN LUIGI BECCARIA, Italiano antico e nuovo, Cernusco, Garzanti, 2002, pp. 77-78

 

[35] ENRICO TESTA, ‘La «diabolica lingua italiana » e «il parlar scrivendo»’, in Lo stile semplice,  Torino ,  Einaudi, 1997, p. 117

[36] F. SABATINI, L’italiano, dalla letteratura alla nazione – linee di storia linguistica d’Italia, op. cit., p. 21

[37] GIAN LUIGI BECCARIA, op. cit. , p. 71

[38] Cfr.  F. BRUNI, ‘Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo’, in AA. VV. Cultura meridionale e letteratura italiana, Napoli, Loffredo, 1985, pp. 489 -  547

[39] A. STUSSI, Lingua dialetto e letteratura, Torino, Einaudi, 1993, p. 177

[40] Ibidem

[41] Cfr. F. BRUNI, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo, op. cit. , pp. 489 - 547

[42] V. COLETTI, Storia dell’italiano letterario,op. cit. ,  p. 295

[43] Cfr. F. BRUNI, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo,  op. cit. pp. 489 - 547

[44] Ivi, p. 501

[45] Cfr F. BRUNI, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo, op. cit, pp 489 – 547; e anche A. STUSSI,  Lingua dialetto e letteratura ‘ Lingua e problemi della lingua in Capuana’, op. cit., pp. 154 – 183.

[46] ENRICO TESTA, Lo stile semplice, op. cit., p. 117

[47] Cfr. F. BRUNI, Sondaggi su lingua e tecnica narrativa del verismo, op. cit. , pp. 489 – 547; e anche LUCA SERIANNI, Il secondo Ottocento, capitolo nono ‘Il  teatro’, op. cit. , pp. 155 - 166

[48] Ivi, p.159

[49] Cfr. ENRICO TESTA, Lo stile semplice, op. cit. , pp. 147 - 166

[50] Ibidem.

[51] NELLO STAGNITTI La vita è divina, op. cit. p.77

[52] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, Catania, Giannotta, 1897, p. VII

[53] Ivi, p. IV

[54] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit., p. 23. Deriva dalla fusione di con e l’art. determinativo le; usato da Monti: Colla parte di me che intende e vede[…],Tetrarca: O colle brune o colle bianche chiome, seguirò l’ombra di quel dolce lauro.  Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino, 1964,  p. 450, vol. III.

[55] Ivi, pag 130

[56] Ivi, p. 54. Usato da Dante, vita nuova: Ed avea seco umiltà sì verace, […]. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino, 1964, p. 874, vol. I

[57] Ivi, p. 82

[58] Ivi, p. 92

[59] Ivi, p. 82

[60] Ivi, p. 82

[61] NELLO STAGNITTI, Amata, Libreria Editrice, Milano, 1885, p. 45

[62] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit., p. 63

[63] Ivi, p. 101

[64] Ivi, p. 153

[65] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit., p. 19

[66] Ivi, p. 62

[67] Ibidem

[68] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, op. cit. p. 26

[69] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit. p. 67

[70] Ivi, p. 95 e 98

[71] Ivi, p. 99

[72] Ivi, p. 115 e 116. Citato in Dante, Convivio: La imagine de le corpora […], e in D’annunzio: L’imagine di me nell’acque amavi; vedi S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, Utet, Torino, 1964, p. 344, vol. VII

[73] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit., p. 11

[74] Ivi, p. 17

[75] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit., p. 84. Riportato anche oltre che da Machiavelli, anche da Leopardi: Anzi d’altrui le tenere / cure suol porre in giuoco; e De Roberto: […] ficcava i suoi aderenti da per tutto perché facessero il suo giuoco. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 800, vol. VI

[76] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit., p 12

[77] Ivi, p. 19

[78] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit., p. 101. Scancellare è rafforzativo di Cancellare, già usato da Machiavelli: Questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare un antico vivere[…] e Capuana: Il matrimonio scancella ben più che un amoruccio. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 796, vol. XVIII.

[79] Ivi, p. 98. Termine antico per presto, subito, già citato in Dante: Noi ci rallegrammo, e tosto tornò in pianto e Pirandello: Al suono di quella voce Giulio cangiò tosto d’umore. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana,op. cit. , p. 88, vol. XXI.

[80] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, op. cit., p. 32. Avverbio antico e letterario, in uso da Dante: […]e poscia morto dir non è mestieri, Nievo: Riverii poscia il Conte e Monsignore, […], Tasso: Soggiunse poscia: […], vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p.1014, vol. XIII.

[81] Ivi, p. 30-31. Sono forme ormai antiquate di pronomi + con. Usato da Petrarca: Di me medesimo meco mi vergogno e Manzoni: O figlio, o Tu cui genera / l’Eterno, eterno seco; / qual ti può dir dé secoli: «tu cominciasti meco?». Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 449-450, vol. III

[82] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit., p. 12. Ciuco è già in uso da Carducci: Ma il ciuco ti buttò senza creanza, e D’annunzio: l’acefalo mostro che ha il tronco / di ciuco e la coda di verro. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 204, vol. III

[83] Ivi, p. 17. Fo è indicativo presente antico e dialettale di Fare. Già in uso in diversi autori toscani: Boccaccio, Decameron: Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero, e Cellini: Tutto quello che io fo si è per la salute tua. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 662, vol. V

[84] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, Milano, op. cit., p. 17

[85] Ivi, p. 80. Mica è antico e dialettale di Miga. Lorenzo De Medici: […] le mie proferte non son mica sogno. D’Annunzio: Non piange mica. Manzoni, ed. ventisettana: […] Non mica che ella sia la badessa né la priora; […].Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 344, vol. X

[86] Ivi, p. 85

[87] Ivi, p. 29. Punto è avverbio antico e letterario usato come rafforzativo della negazione: affatto, per nulla. Boccaccio, Decameron: Bergamino allora, senza punto pensare…, disse questa novella. Dante, inf.: «O figliuol», disse, « qual di questa greggia / s’arresta punto, giace poi cent’anni / […]. Pirandello: Fare… ecco, poter fare, senza punte parole!. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 1000, vol. XIV

[88] Ivi, p. 94. Boccaccio, Decameron: Padre mio, io non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla. Foscolo: Le donne sparlano di me, anche senza conoscermi, perché non ci ho mai tributato la corte che ambiscono anche da più sciocchi. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 103, vol. III

[89] Ivi, p. 79.

[90] Ivi, p. 90.

[91] Ivi, p. 91. Grullerie è sostantivo femminile di derivazione toscana. Capuana: Ma dite in serietà? Date retta alle grullerie di vostra sorella? . Carducci:  […] avea perduto pazienza delle vanità e grullerie paesane. . Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. ,  p. 82, vol. VII.

[92] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, op. cit., p. 52

[93] Ivi, p. 35. Pigia pigia è forma iterata dell’imperativo di Pigiare, toscanismo. De Roberto: Finalmente, nel tumulto, nel pigia pigia, […]. Pirandello: I mille rumori della fiera e il pigia pigia della folla. Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 535, vol. XIV

[94] Ivi, p. 40

[95] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit. , 1885, p. 48.  Forteguerri: Lo stesso vento avuto avria di cotto. Fagiuoli: E quella voce sua di gazzerotto / potrebbe diventar forse di cigno, /e in tasca avria le nove suore e l’otto. Dante, Par.: Se quantunque s’acquista / giù per dottrina, fosse così ‘nteso, / non li avrìa loco ingegno di sofista.  Manzoni: Ah! Perché mai versato / tutto il torrente dell’angoscia avria /  […]  .  Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , pp. 876-877, Vol. I

[96] Ivi.

[97] Ivi, p. 51. Torre  è forma letterario di togliere. Carducci: Siamo stati due ore a chiacchiera… sull’affare dei libri da tôrsi di biblioteca. Dante, Inf.:  Ma fù io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto. Botta: Volendo torre dalla capitale […].   Vedi: S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, op. cit. , p. 1103, vol. XX

[98] FEDERICO DOGLIO, Teatro e Risorgimento, Universale Cappelli, Rocca San Casciano, 1961, p. 49 . Doglio cita comunque i testi dai quali è possibile reperire notizie e dati, in particolare: L’Ottocento di G. MAZZONI , Milano, 1953; Il teatro italiano dell’800 di G. COSTETTI, Rocca S. Casciano, 1901; Del teatro drammatico in Italia di F. MARTINI (Firenze, 1862); Il teatro italiano contemporaneo, L. CAPUANA (Palermo, 1872); Storia del teatro contemporaneo, G. RUBERTI (Bologna, 1928). Opere più recenti sull’argomento, sempre riportate da Doglio, sono: A. FIOCCO, Aspetti della commedia risorgimentale ( su Il Veltro, agosto-sett. 1959); G. DAMERINI, Il teatro del risorgimento italiano ( su Il Dramma, aprile 1960) e V. PANDOLFI, Il teatro dialettale siciliano, piemontese, veneto, dramma intimo dell’Unità d’Italia (su Il Dramma, 1960)

[99] FEDERICO DOGLIO, Teatro e Risorgimento, op. cit., 1961, p. 49

[100] Ivi, p. 49

[101] Ibidem

[102] M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, vol. IV, Rizzoli, Milano, 2003, p. 255.

[103]   G. NICASTRO, Giusti e il teatro del primo Ottocento, Bari, Laterza 1976, p. 46

[104] LUCA SERIANNI, Il secondo Ottocento, op. cit., pp.155-156

[105] Cfr. CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici, op. cit. scheda critica ‘Il  teatro del secondo ottocento’, pp. 540 - 541

[106]   Ivi, p. 540                                                                                                                                              

[107] NELLO STAGNITTI, Amata, op. cit, p. 6

[108] Ivi, p. 33

[109] Ivi, p. 12

[110] Ivi, p. 19

[111] Ivi, p. 60

[112] Ivi, p. 69

[113] Ivi, p. 70

[114] Ivi,  p. 28

[115] Ivi, p. 31

[116] Ivi, pp. 68-70

[117] CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici, op. cit., p. 201

[118] LUCA CLERICI, Invito a conoscere il verismo, op. cit., p. 74

[119] G. VERGA, Amore e patria, in AA. VV.  Ricordi di D’artagnan”, Ed. del Sud, Officine grafiche F. Sanzo & C., Palermo, 1929, p.106

[120] N. STAGNITTI, Amata, op. cit. , p.31

[121] Ibidem

[122] N. STAGNITTI, Amata, op. cit. , p. 69

[123] Poesie Varie, a cura di O. Malagodi,  Bari, Laterza, 1916, p. 118

[124] NELLO STAGNITTI, Elda Vestrini,  Catania, Tip. Martinez, 1887, p. 4

[125] Il discorso qui appare incongruo: non si capisce perché debba essere il padre a rifiutare un matrimonio che  per lui sarebbe positivo.

[126] Non è per nulla chiaro se e come Nicolò Vestrini entra a conoscenza della tresca fra sua figlia e il cavaliere. Neppure il lettore ne è informato se non alla fine, quando si parla di un bambino figlio di Elda e dei sensi di colpa del padre che  solo per deduzioni fanno ricondurre al cavaliere Valneri.

[127] NELLO STAGNITTI, Elda Vestrini, op. cit., p. 80

[128] SANTO CALì, Bibliografia,op.cit.,p. 63  e  SANTO CALì, Le Strade aspettano un nome, op.cit. p. 128

[129] Dato che all’interno delle commedie il cognome non subisce mai alcuna variazione.

[130] Cfr.  CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici, vol. 2, op. cit. , pp. 678 - 793

[131] CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici, op. cit. , vol. 3, tomo I , p. 695

[132] NELLO STAGNITTI, Elda Vestrini, op. cit. , p. 22

[133] NELLO STAGNITTI, Elda Vestini, op. cit. pp. 28 - 31

[134] CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male,a cura di Luana Leonini, Rusconi Libri, Santarcangelo di Romagna, 2004, p.28

[135] G. CATTANEO, Prosatori e critici dalla letteratura al verismo, in AA. VV,  Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, 1968, vol. VIII , p. 45

[136] G. VERGA, Sulle lagune, G. C. Sansoni editore, Nuova S.p.a., Firenze, 1983, p. 394

[137] SANTO CALì, Dal liber capitulorum ai tigli del parco, op. cit. pp. 29 - 30

[138] C.A. MADRIGNANI, Capuana e il naturalismo, Bari, Laterza, 1970, p. 91

[139] Ivi, p. 75

[140] Ivi, p. 119

[141] Ivi, p. VII :  Di fatti, l’Illiade, il Furioso e La Signora delle Camelie sono opere d’arte altissime per bellezza; e, non di meno sono state condotte con metodi differenti.

[142] Ibidem

[143] Ibidem

[144] Ibidem

[145] Ibidem

[146] OSCAR WILDE, Il Ritratto di Dorian Gray, traduzione a cura di Nicoletta Della Casa Porta, Acquarelli Best Seller, Colognola ai Colli, 2001, p. 11

[147] NELLO STAGNITTI, LeFidanzate, op. cit.  p. VII

[148] OSCAR WILDE, Il Ritratto di Dorian Gray, op. cit.  p. 11

[149] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate,op. cit.  p. VII

[150] Ibidem

[151] Ibidem

[152] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate,  op. cit. , p. 75

[153] ALBERTO MORAVIA, Gli indifferenti,  (in La biblioteca di Repubblica) Printer, Industria Grafica, S. A., Barcellona, 2002. p. 250

[154] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, op. cit. p. 75

[155] ALBERTO MORAVIA, Gli indifferenti, op. cit.,  p.249

[156] NELLO STAGNITTI, Le Fidanzate, op. cit. p. 23

[157] NELLO STAGNITTI,  La vita è divina, op. cit., p. 5

[158] Ivi, p. 7

[159] Ivi, pp. 106-107

[160] Ivi, p. 157

[161] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit. p. 28

[162] G. VERGA, Sulle Lagune, op. cit., p. 387

[163] L. SCIASCIA, Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Adelphi, Milano, 2005, pp. 71-72

[164] NELLO STAGNITTI, La vita è divina, op. cit. , pp. 101-102

[165] CHARLES BAUDELAIRE, I fiori del male, op. cit., p. 10

[166] NELLO STAGNITTI, Elevazione, Città di Castello, Casa Editrice Lapi, 1914, p. 197

[167] Ivi, p. 189

[168] Ivi, p. 173

[169] Ivi, p. 146

[170] Ivi, p. 101

[171] Cfr. CADIOLI, DI ALESIO, ESPOSITO, VINCENZI, La letteratura e i suoi classici,  op. cit. pp. 634 – 637. « Di tale narrativa forniscono gli esempi più alti autori già ricordati a proposito, del  “wertherismo”, nel Percorso 1: François Renè de Chateaubriand, Etienne Pivert de Sénancour e Benjamin Constant. »

[172] NELLO STAGNITTI. Le Fidanzate, op. cit. p. VIII

[173] Ivi, p. VII

[174] Ibidem

[175] Ibidem

[176] E. TESTA, Lo stile semplice, op. cit. p. 117

[177] Vedi nota 38

[178] Vedi p. 34

[179] Ibidem