DESCRIZIONE ANALITICA DEI TOPONIMI

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MACELLO,  VIA DEL

L’ex macello comunale si raggiunge per l’omonima stradina: è questa l’occasione per ricordare che la macellazione delle carni, perlopiù bovine e suine, raggiunge a Linguaglossa straordinari primati. Le macellerie in paese sono moltissime e tutte rinomate per la invidiabile eleganza e per la bontà dei prodotti.

MADONNINA DELLA PINETA,  PIAZZA

La piazza non ha una sua denominazione essendo quella di Pio IX arbitraria, ricavata dalla vicinanza della omonima via. Vi ha sede il monumento della Madonnina della Pineta opera dello scultore catanese Eugenio Russo ideato da Franco Sgroi, altro artista catanese. La collocazione del monumento diede origine a focose polemiche perlopiù scaturite dallo stile sobrio della statua, soggetta a permalose censure. Originale è il blocco lavico che fa da piedistallo alla statua: purtroppo il blocco monolitico durante il trasporto subì una spaccatura. La bella iscrizione: Rosa di Gerico giglio delle convalli / ti compiacesti del pino scabro / dalle pieghe incise nel manto / stilli sui valligiani devoti / - fresca rugiada di resina - / la grazia del tuo Gesù  fu dettata dal sacerdote Emanuele Calì.

MAJORANA,  LARGO ETTORE

Fisico nato a Catania il 6 Agosto 1906. Scomparso nel 1938. Laureatosi in Fisica a Roma alla scuola di Enrico Fermi, compì vari ed importanti lavori in fisica teorica. Fu nominato  nel 1937, per meriti eccezionali, professore di fisica teorica nell’Università di Napoli.

MALBORGO,  VIA

Non sono ben note le specificazioni del toponimo che letteralmente significa aggregato di case, malo. Perché al quartiere si sia dato l’aggettivo malo non è dato capire. Trattandosi comunque di toponimo antico per un antico quartiere resta tale.

MANGANELLI,  VIA

Si veda la descrizione di Via del Funicello.

MANZONI,  VIA  ALESSANDRO 

Scrittore e poeta (Milano 1785 - 1873). E’ tra i nomi più gloriosi della nostra letteratura. E chi voglia ancora oggi indicare una concezione di vita sana, sensata, sincera nella quale idealità e verità, realtà e fantasia si contemperino non esita a usare l’epiteto scultorio manzoniano. Della sua biografia celebre è l’episodio della conversione alla religione cattolica dopo il matrimonio con Enrichetta Blondel. Dal 1810 si inizia il periodo più fertile della sua produzione che comprende: Gli inni sacri, Marzo 1821, Cinque maggio, le tragedie Conte di Carmagnola e Adelchi e il famosissimo romanzo I promessi sposi. Naturalmente la fama del poeta è maggiormente legata al romanzo e alla trama popolarissima che narra le avventure di due umili creature  (Renzo e Lucia), perseguitate da Don Rodrigo tirannello presuntuoso. Sul mondo manzoniano splende la luce della Provvidenza e il convincimento che la fiducia in Dio basti a consolare l’umanità per i molti mali che l’affliggono.

MARCONI,  VIA  GUGLIELMO

(Bologna 1874, Roma 1937). Illustre fisico, senatore nel regno d’Italia legò il suo nome alla prime trasmissioni radiotelegrafiche dall’Europa all’America (1901), alle prime trasmissioni radiotelefoniche dall’Inghilterra all’Australia fino ai primi esperimenti di televisione. La sua vita fu un susseguirsi di prodigiose vittorie sulla forza della Natura. La sua scienza attinente alle radiocomunicazioni deve molto ai suoi fondamentali contributi.

MARENEVE,  VIA

Per i linguaglossesi è il rettifilo che parte da via Umberto I e porta alla pineta Ragabo. E’ il polmone del paese perché ne costituisce la spinta verso le annose mete: il lancio turistico che dia lavoro, con la valorizzazione del bosco. La conferma del toponimo è fuori discussione.

MARMORAI,  VICO DEI

A ricordo di tutti i marmorai che hanno lasciato opere di grande maestria e bellezza nelle nostre chiese.

MARSALA,  LARGO

Nella storia del Risorgimento il nome Marsala è celebre per il felice sbarco della spedizione dei Mille, condotto da Giuseppe Garibaldi la mattina dell’11 maggio 1860.

MATRICE,  PIAZZA

U gghianu a Matrici deve restare tale. Altra denominazione suonerebbe violenza alla tradizione popolare.

MATTEOTTI,  VIA GIACOMO

(Fratta Polesine, 1885 - Roma 1924). Compì gli studi giuridici a Bologna, laureandosi nel 1907 con una tesi sui Principi generali della recidiva, stampata in volume nel 1910. Il suo esordio nella politica è di questi anni. Viene eletto sindaco di Villa Marzana; fa poi parte di altra Amministrazione comunale del Polesine e quindi del Consiglio della Amministrazione Provinciale di Rovigo. Finita la guerra Italo-Austriaca fu eletto deputato di Polesine. La sua concezione umanitaristica del socialismo attuantesi per gradi e il suo  temperamento attivistico lo portarono in aperto contrasto con il fascismo. Difese il suo Polesine socialista in discorsi e scritti, prodigandosi instancabilmente a soccorrere le organizzazioni e i compagni più colpiti, sfidando temerariamente le minacce e gli assalti degli avversari. Alla fine del 1923 Matteotti pubblicò Un anno di dominazione fascista. Dopo le elezioni dell’aprile 1924, svoltesi in un’atmosfera di terrore e di intimidazioni, Matteotti pronunciò alla Camera il famoso discorso - l’ultimo - del 30 maggio 1924. Il pomeriggio del 10 giugno dello stesso anno Matteotti, mentre usciva di casa per recarsi a Montecitorio, venne aggredito da un gruppo di fascisti armati che lo caricarono su un’automobile e dopo averlo assassinato andarono a seppellirne il cadavere nel bosco della Quartarella. L’unanime reazione del delitto determinò il ritiro dell’opposizione sull’Aventino.

MATTEUCCI,  VIA RAFFAELE

Vulcanologo e Geologo, nato a Ripe presso Senigallia nel 1846, morto a Napoli nel 1909. Libero docente di geologia nell’Università, direttore del Gabinetto di Fisica Terrestre di Napoli, fu chiamato nel 1903 a succedere al Palmieri nella direzione dell’Osservatorio vesuviano. Furono in special modo i lavori riguardanti il Vesuvio, i cui fenomeni pose a confronto con quelli dei vulcani di Santorino e di altre località, che lo resero famoso. Il suo lavoro principale è: L’apparato dinamico dell’eruzione del Vesuvio del 1895.

MAZZINI,  VIA GIUSEPPE

(Genova 1805 - Pisa 1872). La storia risorgimentale ebbe nel Mazzini il suo più fecondo pensatore. Le formule della sua dottrina: Dio e popolo, Pensiero e azione possono considerarsi base fondamentale della attività patriottica che determinò, prima con la Carboneria e poi con la Giovane Italia, le premesse per la formazione dello Stato unitario. Per la professione aperta delle sue idee Mazzini subì il carcere e l’esilio. L’ardente propaganda dei suoi messaggi dilagò in tutta Italia e si tradusse in generosi tentativi rivoluzionari. Fu soprattutto il 1848 l’anno cruciale dell’attività mazziniana che culminò nella rivoluzione romana che lo proclamò triumviro assieme ad Armellini e Saffi. Mazzini si spense stanco e amareggiato soprattutto dalla sua incomprensione per la politica del Cavour legata ai Savoia con il contributo di Napoleone III.

MESSINA,  VIA  FRANCESCO  

Francesco Messina nacque a Linguaglossa nel 1900. Poverissimo, crebbe e studiò a Genova dove restò fino all’età di 32 anni venendo all’arte dalla bottega. Completò i suoi studi visitando i maggiori musei d’Europa. Nel 1932 si trasferì a Milano e nel 1934 ottenne per concorso nazionale la cattedra di Scultura alla Accademia di Brer. Dal 1936 al 1944 fu anche direttore di tutte le scuole d’arte di  detto Istituto. All’età di ventanni cominciò ad esporre nelle più importanti esposizioni italiane e straniere. Sue opere si trovano in musei d’Europa e d’America e in numerose collezioni private italiane, europee e americane. Suoi monumenti adornano piazze, chiese e ville d’Italia. Vinse il premio della scultura alla Biennale di Venezia del 1942. Venne decorato della medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione e due volte della medaglia d’oro della Città di Milano. Nel maggio del 1943 fu nominato Accademico d’Italia. Si spegne a Milano il 13 settembre 1995, alla veneranda età di 95 anni.

MEUCCI,  VICO ANTONIO

Inventore del telefono, nato a Firenze nel 1808, e morto a Long Island (New York), nel 1889.

MIELE,  VICO DEL

Sono ancora diversi oggi gli apicoltori che traggono il gustoso miele dalle arnie, dove con pazienza le api hanno raccolto il nettare delle nostre piante: ginestre, castagni ecc.

MILANA,  VIA FRANCESCO

Nacque a Linguaglossa nel 1819 da Giovanni e da Carmela Fazio. Giovanissimo fu consacrato sacerdote e dedicò tutta la vita al suo ministero, difendendo strenuamente quei beni ecclesiastici, che oggi lentamente si consumano o si isteriliscono per mancanza di provvide cure. E le rendite di quei beni adoperò per l’arredamento delle Chiese: la Matrice si arricchì allora delle dignitose tele del Provenzani, del D’Agata, del Ferro e del Minutoli. Curò l’istruzione dei fanciulli e favorì l’istituzione e l’incremento di pie opere. Partecipò alla vita amministrativa del suo paese. Fervente d’amore patriottico conobbe anche la persecuzione dei Borboni. Morì il 21 ottobre del 1881, compianto unanimemente da tutti i linguaglossesi. Il suo corpo, imbalsamato, si conserva nel Convento dei Cappuccini. Sulla bara di vetro vi si legge una efficace iscrizione: Franciscus Milana parrochus omnimodis nulli secundus multisque aliis scientiis satis excultuls Ecclesiae infaticabilis strenuisque pugnator. Nitorem domus Dei pro viribus promovit et auxit. Antistitisque oculus et brachium fuit. Prudentiae et fortitudini comitantem mirifice socians commoda sua respuit nulla sibi ora relicta donec laboribus fractus die 21 oct. 1881 aetatis suae 64 nondum expleto coelum petiit magnum sui sacerdotibus desiderium linquens. Heu quem perdidimus. Ave, felice anima, laudes tuas nulla unquam conticescit aetas.

MILANA,  VILLA GIOVANNI

Nacque a Linguaglossa da Antonino e Concetta Stagnitti il 4 febbraio 1864. Studente liceale, derivando le sue convinzioni dalla lettura degli scritti mazziniani, fondò a Catania, quando il solo pensarlo era un delitto, un Circolo repubblicano. Conseguita la laurea in giurisprudenza esercitò la libera professione e illustrò il foro catanese. Nel suo studio, sempre frequentato da giovani discepoli, la voce del Mastro insegnava, prima delle stesse nozioni del diritto, il vangelo della rettitudine e della lealtà. Oratore dalla logica stringente, padrone della procedura penale, nelle sue concitate arringhe rifuggiva dall’orpello della forma e dal lenocinio della parola, ma il soggetto teneva da presso, incalzandolo. Al dibattimento, specialmente quando accordava ai poveri il beneficio della sua assistenza, era un combattente vero e proprio. Abbracciata l’idea socialista alimentando vieppiù la speranza e la fede nell’avvento della repubblica, il braccio destro di Giuseppe De Felice. E quando durò la vana lusinga che, confinato il grande Tribuno catanese a Malta e in Francia e rinchiuso nelle patrie galere di Volterra il blocco democratico isolane avesse a frantumarsi, Giovanni Milana si pose risolutamente a capo del partito, impegnandovi quel suo prorompente vigore giovanile, che sembrava non dovesse logorarsi mai. E assunse, in piena coscienza, tutte le responsabilità: quelle che gli spettavano e quelle che gli si attribuirono. Non discusse, agì. Volle la vittoria e l’ebbe. Parecchie volte si ripeté il cimento e altrettante vinse, lieto di sacrificare per l’idea la pace e la vita e il patrimonio. Duce di memorande battaglie elettorali, entrò alla Camera nel 1909, deputato del Collegio di Paternò, fu rieletto nello stesso Collegio nel 1913, con una votazione imponente, ad onta della guerra senza quartiere scatenata contro di lui dagli avversari appoggiati dal governo. La morte lo colse nel vigore degli anni, ancora sulla breccia dopo un trentennio di lotte, nel novembre del 1914.

MILO,  VIA

È la via che conduce alla bella cittadina etnea. L’economia milese si  basa sulla viticoltura sul commercio di legname (specie di castagno dell’Etna) e sul turismo estivo. Bellissimi e riposanti i boschi del suo territorio. Frazione di Giarre fino al 1923, passò a frazione del comune di Sant’Alfio fino al 1955, quando ottenne l’autonomia comunale. Parecchie volte è stata minacciata da colate laviche, come avvenne nel 1950. Il toponimo di Milo è derivato dalle acque di una sorgente, che scorrendo sulle lave, sembrano nere: Milo infatti viene dal greco bizantino, e significa nero. L’acqua in questione viene chiamata appunto Acqua du scarbugghiu l’acqua dello scarafaggio nero.

MIRACOLO,  VIA DEL

Nell’anno 1556 - scrive Francesco Pafumi in una sua Memoria - una terribile eruzione dell’Etna nei primi di Novembre, oltre al danno arrecato ad una gran parte del territorio, subissò l’intero paese. In tal frangente, fuggiti tutti i cittadini, restò in casa una vecchierella paralitica abitante in vicinanza della Chiesa e vedendosi il fuoco alle spalle a stento trascinandosi carponi alla Chiesa, ed ispirata dal Signore invocò il nome di Egidio, ed, oh portento, Egidio le è vicino, la tocca col bastone, le restituisce l’antico vigore e le comanda di suonare le campane della Chiesa per così richiamare i dispersi cittadini, assicurandola di essere cessata l’eruzione e promettendole per l’avvenire la sua protezione; ritornano i cittadini ed in decorso di tempo in quella stessa lava riedificano le case, e il quartiere dalla triste memoria del fatto vien chiamato tutt’ora col nome saracenico di Sciara.

MITRIA,  VICO DELLA 

Copertura del capo che alcuni dignitari ecclesiastici usano durante la funzioni solenni. In origine era arrotondato in alto, ma dal secolo XII ha preso la forma attuale, schiacciata e terminante in alto con due punte cuspidali cornua e recante due fasce vittae pendenti sulle spalle. E’ il copricapo del nostro Santo Patrono.

MONACAGLIA,  VIA 

Mastro Giuseppe Cangemi, inteso Manazza, scaraventò per aria martello, forme e lesina e corse disperato alla Chiesa di Sant’Egidio, che era allora la Chiesa Matrice di Linguaglossa. Prese di petto Padre Don Carmelo Crupi, ’u parrineddu, e voleva dirgli chissà che cosa, ma si masticava le parole per la rabbia. Poi gridò che voleva lavorare, che i suoi quattro figli eran nudi e scalzi e chiamavano sempre pane, anche nel sonno, e sua moglie gli moriva in un fondo di letto e sembrava la figura della morte. Don Carmelo Crupi, dopo che Mastro Giuseppe si fu un poco sfogato, gli appoggiò amorevolmente la mano scarnita su una spalla. E lo guardò fisso negli occhi, e il suo volto patito si illuminava di un sorriso amaro: - Non disperare Giuseppe; chi si dispera si danna... Per te, per noi poveri ci ha da pensare Lui, solo Lui... Va, inginocchiati, Giuseppe; e pregalo ancora; e diglielo che i tuoi figlioli sono nudi e scalzi e chiamano sempre pane e tua moglie ti muore in un fondo di letto!... Il vecchio Cristo dalla croce tarlata schiuse gli occhi e le labbra sbiadite di polvere e disse a Mastro Giuseppe: - Lo so anch’io, Puddittu, che i tuoi figlioli sono nudi e scalzi e chiamano pane anche nel sonno e tua moglie ti muore in un fondo di letto. Don Petruzio Librandi, lo speziale le misture le prepara solo a suon di onze e stamattina tu che di onze non ne sai manco l’odore mi hai bestemmiato, come se lo speziale fossi io... Eppure ti ho già assolto, Puddittu, perché galantuomo ci sei... Ma quando le anime innocenti sono loro che ci vanno di mezzo, allora no; non basta più essere galantuomini... Ma non guardarmi così, con quella faccia spaurita da allocco... Ti ripeto che non basta più essere galantuomini... Mastro Giuseppe si strinse la testa sudata nella grossa mano e le vene delle tempie gli facevano come un martello. E il Cristo soggiunse: - Che ne diresti allora se io, se proprio io, ti consigliassi - guardami! - ti consigliassi di andare a rubare? Mastro Giuseppe si alzò e andò a buttarsi, come un sacco, nelle braccia di Don Carmelo Crupi: - Anima dannata io sono! Ladro, ladro mi ha chiamato Gesù Cristo! Ma ve lo giuro su questi occhi, Padre Don Carmileddu, ve lo giuro sulla fortuna di Domenichella, che ancora non sa dire bà... ve lo giuro sull’anima di tutti i moti del Paradiso, che io, io, Puddu Cangemi Manazza, a rubare non ci avevo mai pensato! Mai... mai... mai... E scoppiò a piangere, che pareva un vitello. Don Carmelo Crupi lasciò ancora che Mastro Giuseppe si sfogasse. Lo afferrò poi con le sue mani per le spalle, stringendo cenci ed ossa, e lo staccò da sé, e lo tenne come in una tenaglia, fissandolo con i suoi occhi, limpidi e dolci: - Le vie del Signore conducono tutte alla vigna; non alla vigna dei cappelli, e nemmeno ai noccioleti dei voscenza. Ma alla vigna grande, dove il Signore non paga il sabato, ma la domenica sì. E tu che ne sai, Giuseppe!... Va, va, ritorna da Lui! Inginocchiati e chiedigli a chi devi rubare il pane per i tuoi figli... Il Cristo dalla Croce schiuse ancora gli occhi e le labbra  bianche e parlava ora con un filo di voce, che pareva morto da cento anni: - A chi?... A chi?... Stavo già per dirtelo e tu invece sei scappato; come un ladro vero... Ma ti assolvo anche questa, Puddittu Manazza... E richiuse gli occhi e le labbra trascolorò. Ora la sua voce veniva come da un altro mondo: - Non bastano ostie a saziarla di me! Per questo la chiamano la Monaca Santa! Ma il nome vero è Betta Ferrara... Non bastano ostie a saziarla di me! E riaperse gli occhi e le labbra e disse con voce ferma: - Questa è religione, Puddittu Manazza!... E poi: - Domani, alle quattro, prima dell’alba, lei, la Monaca Santa,  su quegli scalini, prenderà l’ostia dalle mani di Don Carmelo Crupi; e tu entraci nella sua casa, e pigliati tutto il pane che vuoi! Ma presto! Ché se ci caschi, sta pur certo che la giustizia degli uomini non ti assolverà! Ladri o ricchi ci si nasce. E Mastro Giuseppe Manazza non era nato ricco, ma nemmeno ladro. Quando alle quattro la campana della Chiesa di Sant’Egidio sciolse lenta i rintocchi, Mastro Giuseppe quei rintocchi se li sentì tonfare ad uno ad uno nel cuore, come nel vuoto di un catino. Vide una mantellina scivolare lungo il muro muschioso dell’abside; si mosse, ma sentiva all’intorno le ombre che lo trattenevano; entrò a forza nella casa; accese la lumera che portava con sé: la cassa del pane per i suoi figli era là. Tirò sù il coperchio. Ma il coperchio pesava più di un quintale e pareva di piombo, e le forze gli si incantesimarono e gli e gli tremavano le ginocchia... Si confuse; un sudore freddo gli appiccicava i capelli sulla fronte. Sentì un rumore di passi leggeri, veloci e un fruscio di vesti... Mastro Giuseppe afferrò la lumera, la strinse per spegnerla nella sua grossa mano, e corse a nascondersi. E che sentì con le sue orecchie? E che vide con i suoi occhi ficcati in una fessura della madia, mentre l’ombra svuotava lentamente la stanza? Le cose tristi che gli aveva raccontato suo nonno, mentre a lui ancora ragazzo i brividi gli scorrevano per la schiena, erano storie da cristiani per quello che udì e che vide attraverso la fessura madia. Vide Donna Bettuzza, la Monaca Santa, scoprirsi il collo e poi giù, giù ancora, sino a denudarsi rabbiosamente il petto avvizzito e mungerselo sino a stringere i denti per il dolore e a guaire come una cagna gravida... C’era al muro un Crocifisso di cartapesta. Donna Bettuzza gli fu sopra d’un balzo, agile come una cavalletta, e lo schiodò e si mise a sbatterlo per terra e poi se lo sbatteva sul petto, sul petto e per terra... e lo schiacciava coi piedi e gli sputava sulle piaghe del costato... E il Crocifisso rimaneva intatto, e Donna Bettuzza aveva gli occhi fuliggini di sangue. Ora, discinta e stecchita, come un sarmento devastato dalla grandine, Donna Bettuzza era dinanzi alla cassa. Mise mano al coperchio e il coperchio si alzò su, soffice e leggero come una piuma. C’era dentro alla cassa una pentola. Nera. E dentro alla pentola un mucchio di ostie. Bianche. Donna Bettuzza ne prese una . La gettò dentro ad una padella. La padella friggeva senza fuoco, e schizzava olio... e l’ostia si scioglieva e si allargava in una macchia di sangue e in quel sangue Donna Bettuzza si bagnava il pane e se lo mangiava, e bestemmiava il sangue di Nostro Signore. Dalla fessura della madia Mastro Giuseppe vedeva ora Donna Bettuzza, al di là della finestra, nell’orto fiorito di rose rosse attorno ad un altarino col Cuore di Gesù. Innaffiava le rose, e con l’altra mano si teneva stretta la mantellina nera attorno al volto che aveva il pallore della cera vergine. Ridotto ormai ad uno straccio, col respiro che non riusciva più ad allargargli il petto, Mastro Giuseppe trovò ancora la forza di scostare da sé la madia e uscirne e si trascinò carponi sino alla porta, con lo sguardo sempre inchiodato alla figura di Donna Bettuzza che si teneva stretta la mantellina nera sul volto e innaffiava le rose rosse attorno all’altarino col Cuore di Gesù... Poi scappò dalla casa maledetta, e si mise a chiamare aiuto nella sagrestia della Chiesa.  - L’ho vista io con questi occhi! continuava a gridare e si ficcava le dita negli occhi, e si disperava che Don Carmelo Crupi non gli voleva credere e se ne faceva tutte risate. Nella Chiesa di Sant’Egidio, il giorno dopo, la messa dell’alba fu celebrata da Padre Don Concetto Di Fazio. Mastro Giuseppe Manazza e Don Carmelino Crupi, piccoli piccoli, tenendosi stretti, abbracciati per il collo, in casa di Donna Bettuzza, dietro la madia aspettavano col fiato in gola il ritorno della Monaca Santa. Donna Bettuzza Ferrara rientrò. Chiuse dietro di sé la porta, senza rumore alcuno. Poi diede inizio ai suoi magisteri. Si avvicinò alla cassa e il coperchio si alzò leggero come una piuma. Nella pentola depose l’ostia che aveva ricevuta qualche momento prima dalle mani innocenti di Don Concetto Di Fazio... Richiuse la cassa... Si tirò su le vesti, come nel Ballo delle Vergini; balzò sul Crocifisso... Cominciava già a insozzarlo col contatto delle sue carni... stava per profanarlo il Crocifisso!... Ah, no! Don Carmelo Crupi non ci vide più dagli occhi. Diede una pedata alla madia che andò a fracassarsi in un angolo della stanza ancora nella penombra, rovesciò dall’altro lato Mastro Giuseppe Manazza, alzò in aria con la destra il suo Crocifisso che teneva sul petto e avviandosi verso quell’anima dannata tracciava nell’aria con ampio gesto il Segno della Croce: - Vade retro, Satana! Io ti scongiuro nel nome di Dio Onnipotente... Mentre la calda notte sul piano di Sant’Egidio era sinistramente illuminata dai bagliori del rogo e sul sagrato della Chiesa Don Laurenzio Fiorito, Capitano di Giustizia in cappa nera, sovrastava impassibile la folla che urlava e la Monacaglia si contorceva e bestemmiava ancora nello spasimo della morte, nella fresca solitudine del Ragabo, un bovaro dei Previtera vide salire su dalle sciare di Corruccio un corteo di donne bellissime dietro al cataletto sul quale giaceva bruciacchiata la salma di Donna Bettuzza. Non ebbe il coraggio di scappare, non ebbe la forza. Restò lì. Muto. Come uno scimunito. E quando le ragazze gli passarono accanto, sfiorandolo, e le vide trasfigurarsi, scarmigliate e pallide, e sghignazzare il ritornello maledetto:Semu pattuti di Spattiventu/ E sbulammu com’a lu ventu/ Ca ni potta a Muncibeddu... Solo allora capì che quelle erano streghe; streghe che andavano a buttare il cadavere di Donna Bettuzza nel cratere dell’Etna, in mezzo allo zolfo bollente. All’alba non bevve più latte; tutti i cibi gli vennero a nausea. Di lì a qualche giorno lo trovarono addossato a una roccia, con ai piedi il suo bastone di perastro. Morto. Il corpo si disfaceva in un sudicio nuvolo di mosche ronzanti.

MONGIBELLO,  VIA

Nella via dedicata tutta al ricordo dell’evento miracoloso del nostro Santo Patrono, è bene ricordare la nostra montagna tanto buona quanto cattiva. I due vicoli sono a ricordo dei Ciclopi, giganti con un solo occhio sulla fronte, e a Vulcano, dio del fuoco, che aveva la sua dimora nelle officine dell’Etna.

MONTE  CAUTARA,  VIA

Il monte Cautara (cotara, caldaia, cioè cratere),  si  formò durante l’eruzione del 1566: L’anno 1566  ne’ primi di novembre sotto il Monte delle Concazze nel Bosco delle Lenze, territorio di Linguagrossa, si aprì nel fianco di Mongibello una voragine, dalla quale scorse una lava di poca estensione, e si formò un monte ben ampio, ma non troppo alto, di figura conica al quanto concavo in cima, al quale diedero i montanari i titoli di Caldaja de’ Diavoli, e l’incisione della nostra Carta nominollo Monte Cautara.

MONTE  GRAPPA,  VIA

E’ quella parte delle Prealpi Venete che si eleva tra la Brenta e il Cismona ovest, il Piave ad  est e  la pianura veneta a sud, e che prende il nome della più elevata delle cime (m.1776). Diverse furono le battaglie che si svolsero sul Grappa tra le truppe italiane e le truppe austriache, la grande battaglia che dal 24 Ottobre 1918 fino al 29 s.m., segnò il momento della riscossa. Alle ore 13.40 il comando nemico ordinava la ritirata. Il Grappa era libero per sempre dagli austriaci.

MONTE  ROSSELLO,  VIA

La notte tra il 16 ed il 17 Giugno 1929 si ebbe la grande eruzione dell’Etna, che minacciò seriamente l’abitato di Linguaglossa e distrusse in parte la Borgata Catena. L’eruzione iniziò a sud del Monte Nero passò tra Monte Rosso e Monte Rossello precipitando con una fragorosa cascata in un vallone nel cui fondo si aprivano contemporaneamente altri crateri.

MONTE  ROSSO,  VIA   

Si veda la descrizione di Via Monte Rossello.

MONTE  SANTO,  VIA

Piccola altura a 700 metri s.l.m. di fronte alla borgata Catena, dove il re Vittorio Emanuele III si avviò per il grande spettacolo offerto all’autorità dall’eruzione del Giugno del 1923.

MONTE  TIMPA  ROSSA,  VIA

Zona in parte distrutta dall’eruzione del 1923.

MONTI,  VIA  DEI

Monti è il subcognome della famiglia Cavallaro, macellai per diverse generazioni. La famiglia Cavallaro Monti viveva quasi  tutta  nell’attuale  Piano degli Agostini, che era  detto in precedenza ’U gghianu ’i munti ed anche ’u gghianu ’a preula.

MONTPELLIER,  VICO

Città della Francia meridionale, capoluogo del dipartimento del Hérault, ex capitale della Bassa Linguadoca, lungo la via romana che da Nimes porta a Tolosa. È il paese natale di San Rocco.

MUNICIPIO,  PIAZZA

E’ la vecchia Piazza San Francesco, cambiata in Piazza Municipio dopo la costruzione del nuovo palazzo comunale. La sede del Comune non era più adatta alle esigenze del paese ed allora si deliberò di costruire un nuovo casamento comunale - il vecchio si trovava nella Piazza dell’Annunziata - utilizzando le strutture dell’ex Convento dei Paolotti che dal 1866 era diventato albergo dei poveri. Il progetto venne redatto dall’Ing. Pietro Grassi ed i lavori vennero completati nel 1913, con una spesa complessiva di L. 40.806 e 30 centesimi.


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